Il rifugio è un punto sonoro invisibile nella nevicata delle undici di notte a 2700 metri sul versante nord della Marmolada. Un respiro profondo, di diaframma, se sei fuori nella natura gelida, fiocchi pesanti che il vento fa picchiettare sul tuo cappuccio; se sei dentro, sull’assito chiaro c’è invece una combinazione di scarponi invernali più o meno ramponabili, di scarponi da scialpinismo e dell’occasionale paio di Crocs gentilmente offerto dai gestori ai piedi troppo bagnati. È bene notare che per poter arrivare a quel momento, gli scarponi hanno superato una lunga e articolata fase di selezione, durante la quale sono stati valutati, al di là dei parametri più tecnici e funzionali, flessibilità, comodità e, soprattutto, peso, dacché sono utilizzati in situazioni del tipo ogni grammo in meno conta. Quegli scarponi possono pesare dai 600 ai 1050 grammi ciascuno, e sono impegnati in questo momento e da due ore a questa parte a pestare sull’assito bagnato di neve sciolta e birra i classici di Bregovic, che hanno scalzato il più pigro, rilassato reggae del primo dopocena. Giusto qualche ora prima, le gambe che terminano in quegli scarponi hanno macinato settecento metri di dislivello con gli sci o le ciaspole ai piedi, dentro un tempo inclemente, su neve schifa e cedevole. Hanno poi montato tende nella neve, usando pale sottodimensionate per spalare rettangoli fondi una ventina di centimetri.

Parte un altro Bregovic, passa di mano un’altra bottiglia di birra, l’assito e il rifugio rimbombano nella notte di tormenta, e mi compare a contrasto nella testa l’immagine di quella vezzosissima e apprezzatissima cosa matrimoniale delle ciabattine offerte ai convitati perché dopo tutto il giorno di ricevimento in villa gli si stancano i piedi.

Noi scendendo sulla polvere magnifica della marmolada

La giornata è una di quelle delle grandi occasioni, ma meterologicamente di merda: piove mentre saliamo verso il Fedaia, intensifica mentre percorriamo la diga, si incupisce mentre prendiamo un caffè e una fetta di dolce al sunnominato bar della diga. Tre ragazzi in snowboard arrivano planando al parcheggio. C’è visibilità zero, su, ma se dovete andare solo al rifugio, ci arrivate senza problemi. Mandiamo un messaggio al rifugista per un’eventuale conferma dell’evento, ma comunque partiamo.

L’obiettivo è il Rifugio Capanna del Ghiacciaio, appunto a quota 2700 sul versante nord della Marmolada, gigante di roccia e ghiaccio e materia del pantheon di un geografo laureato a Padova nel fu dipartimento Morandini. Al rifugio e al centro dell’accampamento che comporremo con le nostre tende si svolgerà la prima edizione del Bivouac for Nature, B4N (30 aprile/1 maggio 2022), un evento a metà tra sensibilizzazione, confronto, protesta e festa. Il patto è quello che lì sopra ci si deve arrivare con le proprie forze e, data la stagione e il già nominato meteo, gli strumenti obbligati sono sci d’alpinismo o ciaspole.

Io monto le seconde, ma la neve è illiquidita per i primi quattrocento metri di dislivello, e nella bassa visibilità perdiamo la traccia del gatto [delle nevi] e prendiamo a destra verso il sentiero estivo.

Il sentiero estivo è già duro in estate. Con la neve, lasciamo perdere, ci diranno. (Il tracciato, se ti interessa, lo trovi a fine articolo.)

Il fu dipartimento Morandini, comunque. Era il 2004 e stavo finendo la tesi, una cosa sul campo che mi ha portato quanto più vicino all’essere esploratore io sia mai stato. I miei solchi soli et pensosi sul parquet scricchiolante della biblioteca, i globi di legno dipinto, la cassettiera con le tavolette IGM, più di quanto caffè un uomo possa consumare e i rapporti pedologici della Valle del Sourou, in francese, sul tavolo. Pochissimi e amici i compagni di corso. Erano gli anni del passaggio tra il cosiddetto vecchio ordinamento e quello nuovo che, almeno agli occhi di chi scrive, è da subito e sempre sembrato una sòla, in grado soltanto di aggiungere una ennesima variabile – quella dei crediti – ai ragionamenti che mi sembravano occupare il 95% della potenza di calcolo degli iscritti: ma quante pagine sono da studiare, ma se ci toglie un capitolo, ma se i crediti. Come se l’università fosse questo.

Poco tempo dopo la mia laurea, una laurea in lettere con indirizzo geografia vecchio ordinamento, a Padova, non c’è più stata, e il dipartimento Morandini, cessata la sua funzione, è stato chiuso, e le sue forze intellettuali smembrate.

Io, con la mia laurea su pergamena, qualcosa tipo l’ultimo rinoceronte bianco. Un senso di appartenenza? Non più.

Bivouac for nature 2022 - disegno

Superato il famigerato sentiero estivo a forza di imprecazioni, scavallato sul Pian dei Fiacconi, raggiunto il rifugio omonimo – travolto da una valanga nel dicembre 2020 – sentiamo voci e musica lontane, irreali nel biancore nel quale ci troviamo. Aggiriamo uno sperone innevato dominato da un parallelepipedo di cemento sul quale una bomboletta rossa ha tracciato un enorme RITF. OPEN e una freccia e, infine, caliamo sul rifugio Capanna del Ghiacciaio. La visibilità si è ridotta ancora – sembra un crepuscolo anche se sono le quattro e mezza – e nevica. Conviene montare la tenda, prima che. La nostra è l’ottava del campo base. Secondo un trucco ormai collaudato, abbiamo lasciato i due teli già uniti così che, tra spalare la piazzola e tirare su la tenda, ci vogliono meno di otto minuti. Tempo sufficiente perché gli zaini siano già bianchi di neve. La voce di un ragazzo: è la più grande cazzata che abbiamo mai fatto – ci fai una foto scusa? I tiranti della loro tenda solo legati alle ciaspole piantate nella neve.

La nostra tenda sulla Marmolada

Il Bivouac 4 Nature inizia alle 17 e poco più, nel rifugio strettissimo, caldo e ricco in birra e facce sfogonate. Una trentina di persone, qualcuna di più. A muovere le cose Federico Sordini, mente di Elbec e ideatore del Bivouac, Guido Trevisan, paron delle rovine del Pian dei Fiacconi e ora rifugista in Lagorai, e Fabio Tullio di Legambiente, con le sue stampe del rapporto NeveDiversa 2022.

Federico tiene le mani dentro la pettorina della salopette mentre cammina su e già tra i tavoli e avvia i discorsi. Si parte parlando dei grandi striscioni di Basta impianti (flash mob avvenuti nel 2020 e nel 2021) tesi durante alcune azioni di sensibilizzazione sulle pareti di alcune cime dolomitiche, si passa agli impianti che minacciano la Marmolada sulla quale tutti, sempre, vorrebbero mettere le mani (e che, finora, ha vinto le sue battaglie), si vola sui rendimenti decrescenti dell’overtourism, con le persone che si accodano lungo il Costo o l’Alemagna per raggiungere luoghi che pensavano belli, isolati e romantici ma che isolati e romantici non lo sono più, e fuggono, quindi, abbandonando un ambiente comunque compromesso.

Si parla della testa dura di certi – molti – operatori turistici, impossibili da ricondurre a più miti consigli, e poi di modelli che non possono reggere oltre, di reti e relazioni intessute con pazienza e umiltà e quel lavorìo che è tipico dell’acqua – reti e relazioni poi che si infrangono contro, o attorno, la politica, l’inciucio, l’amicizia particolare, lo scheo.

Lo scheo, dannazione, penso: e che stanchezza pensarci.

Ancora. La distorsione nell’uso dei fondi del PNRR. La mancanza assoluta di trasparenza nei confronti delle opere relative a Milano Cortina 2026, opacità perfettamente riassunta da Facchini qui: siamo i migliori ma siamo in ritardo, dobbiamo correre, lasciate fare. La pista da bob delle stese olimpiadi, 61 milioni di costo per 16+1 tesserati alla federazione italiana

Il rapporto NeveDiversa di quest’anno (sottotitolo: Il turismo invernale nell’epoca della transizione ecologica tra conflitti, discordanze e preoccupazioni, ma anche buone pratiche e nuove speranze, lo puoi scaricare qui, e lo puoi leggere in abbinata al documento del CAI su cambiamenti climatici e industria dello sci) sono 125 pagine di tragicommedia, di progetti da mani nei capelli, impianti temporaneamente chiusi, impianti dismessi, impianti che la neve se la sognano e impianti sottoposti ad accanimento terapeutico, che diventano sanguisughe di fondi pubblici. Ciaspolando verso il rifugio, tre ore prima, non potevo non vedere i piloni abbandonati, come costole di una carcassa semisepolta dalla neve.

Una frase: ci hanno insegnato che l’opinione pubblica non conta, ci hanno messi all’angolo e adesso noi ci crediamo ed è gravissimo. E poi un’altra, fondamentale: guardate che quando un progetto è stato finanziato, non c’è più niente che si possa fare per fermarlo. E che allora è prima che venga finanziato, che dobbiamo informarci, studiare, fare massa critica e far sentire questa nostra benedetta opinione pubblica.

Ci confrontiamo, parliamo. Non è una cosa fattiva, è più un rassicurarci a vicenda che sì, la pensiamo allo stesso modo, che sì, abbiamo voglia di parlare e fare, che sì, ci teniamo davvero, perché siamo consapevoli che tutto dipende da questo.

Quando questo segmento del B4N finisce, chiacchieriamo ancora un po’ con chi capita. Storie, storie, storie. Ragazzi pazzi che si infilano in situazioni gelide. Operai che insegnano fotografia, fanno realizzare progetti fotografici, stringono rapporti, collaborano alla valorizzazione di territori che non sono i loro.

Poi è ora di cena. Dato che l’evento nasce con l’idea della piena autonomia, Silvia ed io ce ne andiamo in tenda, dove scaldiamo la cena con il fornelletto ad alcool mentre fuori continua a nevicare. Preannunciandosi la notte fredda e lunghissima, decidiamo che è meglio tornare dentro a fare qualche chiacchiera e qualche sgnapa.

Federico di Elbec parla al B4N2022

Sono stato anche l’ultimo ad aver frequentato l’istituto d’arte, da adulto e alle serali, scuola meravigliosa per il modo in cui ti trasforma: il fare artistico come rimedio per tante cose. Una di quelle cose che ti danno direzione, che ti tirano per così dire via dalla strada, che ti riempiono le mani dei calli dei tagli dell’artigianato. Oreficeria, la forma di espressione che ho scelto. Ultimo quindi a vivere la bellezza mirifica di quella scuola, perché giusto uno, due anni dopo gli istituti d’arte vengono accorpati ai licei d’arte, con la conseguenza che i laboratori pratici vengono ridotti all’osso, in una specie di buffet di assaggini striminziti che lo studente dovrebbe farsi bastare per innamorarsi di una disciplina. Rapporto stranamente insopportabile, quello tra me e i liceali – in effige, perché ne avrei conosciuti in realtà pochissimi – ma che mi era da subito piaciuto prendere a capro espiatorio e vera ombra scura dell’imminente accorpamento. Così, durante il mio primo anno di serali, quando ero pure stato eletto a rappresentante delle serali tutte e avevo chiuso il mio anno di rappresentanza facendo approvare una epocale grigliata in maresana (avevo scovato e fatto derattizzare una griglia gigante saldata probabilmente durante gli anni Sessanta proprio lì, a scuola), guardavo oltre il reale ma anche metaforico canale al di là del quale stava il liceo artistico della città. Nei suoi confronti, noi dell’istituto un po’ proletari ci si sentiva. Pensavo a che peccato sarebbe stato quando sarebbe avvenuta la trasformazione: e niente più ragazzini ad essere salvati dalla strada con il concreto e bellissimo sistema morale dell’artigiano, che dispiacere.

E il senso di appartenenza, ancora una volta?

I piloni dell'ex impianto di Pian dei Fiacconi

Poi c’è il delirio delle prime righe di questo pezzo e il rifugista che rientra in sala – il che dà per scontato che chissà quando sia uscito – e che riferisce che fuori sta fioccando che è una meraviglia. L’improvviso cambio di repertorio musicale fa scomparire un tavolo e alcune panche – e allora facciamo balera o no? – e porta tutti gli scarponi contemporaneamente sull’assito e la situazione sfugge di mano – e ne sfuggirà, dicono, fino alle 3:40 di notte, in una assurda festa di altissima quota spontanea e scatenata e che comunque, a queste altezze e con questo mondo ovattato attorno, è come non esistesse.

Il rifugista rientra in sala – non è un deja vu – con le mani piene di neve appena scesa, polverosa e perfetta, e la lancia contro chi sta ballando e urla è farina questa, È FARINA!

Ci congratuliamo. Con lui, con noi, con la neve, la stagione, la Marmolada, l’essere lì.

E il senso di appartenenza c’è, ed è una appartenenza più ampia della sola appartenenza. È la consapevolezza che quello che ci tiene vivi – in senso di specie e in senso di individui – è per tutti la stessa emozionante spietata pendente e faticosa cosa. Che qualunque intemperia è solo una scusa per prendersi in giro e riderne e ridere di esserne scampati. Che non ci sono vesciche ai piedi che tengano, se ti stai divertendo. Che ogni altra cosa della società contemporanea, ogni orpello e ogni frivolezza e ogni lamentela e ogni broncio viziato non ha valore, perché l’unico valore è stare nella Natura – e che, possibilmente, la Natura continui ad esserci.

Incrocio le dita: che almeno questa cosa, da me realizzata di recente e alla quale ho aderito relativamente da poco, non finisca proprio adesso.

Il risveglio al campo base sulla marmolada

Probabilmente le cinque di mattina. La terra stessa trattiene il respiro e non c’è più vento mentre fiocchi di neve pesante scendono ora verticali sulle tende, sugli sci piantati a mò di totem e sulle pale di alluminio sgargianti ficcate nella neve a portata di mano, e un bagliore riverbera fioco in un silenzio sospeso screziato soltanto dai teli ghiacciati delle tende, tutto intorno potrebbero essere masse rocciose oppure il nulla e non cambierebbe niente, potremmo essere al centro di un pianoro infinito e candido o su un cornicione sospeso nel vuoto e non cambierebbe niente, è soltanto il normale mistero della natura incomprensibile che toglie il fiato e nel quale, da dentro la nostra tenda, solo sentiamo l’alternanza regolare e soddisfatta del russare di qualcuno che è crollato ubriaco nella sua, di tenda.

Appartenenza, consapevolezza, sorriso, poesia. E la mattina dopo, è farina davvero.

Silvia fa scialpinismo sulla Marmolada

Bivouac for nature 2022 - pin