Il libro sulla Traversata a piedi dell’Islanda
Ti racconto una storia di viaggio e avventura. Che poi diventa un romanzo.
Hai presente cosa vuol dire guadare un torrente glaciale, i pantaloni tirati su fino alle cosce, la corrente che ti porta via? Cosa significa dormire in una utilitaria rossa abbandonata in un deserto di pietre e polvera vulcanica, e scossa da una tormenta che soffia da tutte le direzioni contemporaneamente? E cosa vuol dire scavallare un vulcano esploso giusto sei mesi prima? E farsi 330 chilometri con uno zaino da venticinque chili sulle spalle, e farsi venire un mal di gola talmente forte da non riuscire a piantare la tenda, e camminare tra i fumi che salgono dai campi lavici?
Beh, nemmeno io. Almeno fino a luglio 2010.
Poi ti innamori di una idea matta: attraversare l’Islanda a piedi. Coast-to-coast, da nord a sud. Non sai bene perché te innamori, ma è così.
Come se non bastasse, quella del 2010 è stata l’estate più piovosa degli ultimi trent’anni.
Ma hey, cos’è la Traversata dell’Islanda (o Iceland Traverse)?
330 chilometri da fare in una quindicina di giorni. Si lascia la comoda e divertente capitale Reykjavik e si raggiunge Akureyri, “capitale del nord”, per poi arrivare a Skogar, poche case sul mare famose per una cascata imponente. Nel mezzo ci sono deserti polverosi, ghiacciai, torrenti gelidi. Ci sono superfici piatte, piattissime, battute dal vento. Ci sono pennacchi di vapore – è l’acqua termale che scappa fuori dalla terra – e colline che sembrano pennellate in tre colori. C’è il suono infinito e ritmato dei tuoi passi.
Ci sono accoglienti rifugi di legno, dove le guardiane sono come mamme rudi che però si preoccupano per te. Ci sono posti alieni dove montare la tenda, con il riflesso di laghi immobili a luccicare sul nero dei campi di lava. C’è una montagna cosparsa di pezzi di ossidiana. C’è un vulcano esploso da scavallare: e il bivacco sta proprio su una delle sue creste.
E c’è la fatica fisica: hai sbagliato qualcosa, nella tua preparazione, e lo zaino ti schiaccia al suolo, i vestiti sono troppo caldi, non sono impermeabili, e il cibo che hai con te è davvero poco energetico.
Eppure, è una di quelle avventure della vita delle quali non potresti fare a meno: soffri mentre le fai, ma poi diventa il cuore dei tuoi racconti. E delle tue emozioni.
Di strade che attraversano l’Islanda ce ne sono diverse. Nascono tutte nella storia antica. La nostra scelta?
Per la prima metà l’infausto Spengisandur, una rotta che ha dato vita a terribili ballate popolari: una pista desertica da attraversare lanciando il cavallo a briglia sciolta, perché infestata da briganti e spiriti maligni. E caratterizzata da un clima infame.
E poi, una settimana dei panorami più belli dell’Isola: Landmannlaugar, il Porsmork, un ambiente che cambia ogni quarto d’ora. Stai percorrendo il Laugavegur, uno dei trekking più popolari d’Islanda.
Benvenuto in “Attraverso”!
Attraverso è un libro. É il resoconto di quell’avventura, venuto fuori da un centinaio di fittissime pagine di diario scritte durante le sere nelle quali il sole non tramontava mai.
Il suo titolo completo è
Attraverso: come ho attraversato l’Islanda a piedi durante l’estate più piovosa degli ultimi trent’anni.
Attraverso è tante cose:
- prima di tutto, è un romanzo. Ma è anche…
- una guida a come ci si prepara per un’avventura del genere, quando non sei propriamente un superesperto in materia;
- un resoconto tappa per tappa di uno dei possibili itinerari per attraversare l’Islanda;
- una grande avvertenza;
- una riflessione sulla mentalità della sfida e del fuori-dalla-comfort-zone ad ogni costo, che tanto piace a sportivi e avventurieri d’oggi
Ci è voluto un po’ per trovare il tempo da dedicarci, ma alla fine eccolo. 190 pagine, 13 carte geografiche disegnate a mano, un sacco di scene buffe (e aneddoti che racconto ancora oggi, a distanza di dieci anni).
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Prima di partire
Usciamo dalla guesthouse, inforchiamo la strada in discesa che porta al centro: da ogni dove, gruppetti di ragazzi a piedi scendono nella nostra stessa direzione, affluenti dell’unico fiume che ingombrerà per tutta la sera e tutta la lunghissima notte le arterie principali del centro città. Uno di questi gruppetti si avvicina, e un ragazzo con coda bionda e coppola ci chiede mentre camminiamo affiancati da dove siete, vi piace la nostra isola – tutti gli islandesi te lo chiedono, e con un moto d’orgoglio – e come mai siete qui. Noi rispondiamo che lunedì saremmo saliti ad Akureyri per poi attraversare l’Isola a piedi. Ci viene detto che è una bella idea del cazzo. Ottimo.
Li lasciamo increduli – ormai siamo in città – e ci infiliamo in un Vínbúðin che, dato il momento della giornata e della settimana, è piuttosto frequentato. E c’è questa discrepanza per cui la mattina eravamo entrati in banca a prelevare del contante, e la banca aveva le porte principali spalancate; tutto all’interno era solare, bene illuminato, e l’atmosfera easy, scialla, e non c’erano vetri tra noi e il cassiere. Nel Vínbúðin – più o meno il monopolio di alcolici e tabacchi – sei tenuto sott’occhio da una combinazione di omoni tatuati che stanziano appoggiati contro piramidi di casse di birra, e giovani commessi che ti ronzano attorno a distanza di sicurezza, aspettando che tu rivolga loro la parola. Anche la luce è diversa: più cupa, come di potenziale illegalità. Discrepanza, scontro culturale, ah che curiosità, ma insomma riusciamo a uscire con due sole carissime lattine di birra a bassa gradazione, che offesa: le beviamo seduti su dei cormelli di pietra giusto fuori del Vínbúðin, e in un attimo restiamo a secco.
Un po’ te lo immagini, comunque: è la Paura del Colonizzatore, la stessa che attanaglia gli isolani di qualunque epoca e latitudine: confronta con i papi di cui sopra. Cioè, sono grandi risate ovviamente se le tue ragazze giovanissime si sbronzano con 0.3 di alcool nel sangue, con le birre da due gradi e mezzo, e nessuno è abituato a volumi alcolici più sostanziali e mancano proprio gli enzimi: cose così. Poi arrivi tu da fuori, introduci il negroni in un ecosistema uguale a sé stesso da secoli e quindi delicatissimo, ed è come una pestilenza, e decimi la popolazione dell’isola.
Dalla VI tappa
Fatti una ventina di chilometri dalla partenza – saranno le tre, forse le quattro – la pista fa una piega ad angolo retto verso est, e in un tripudio di quasi piattezza e noia sbuchiamo giù – di pochi metri di dislivello in realtà – in corrispondenza del Bergvatnskvist, un fiume dal letto ampio, molto ampio. Il guado che ci si mostra davanti è uno di quelli che mentre lo studi dalla riva pensi non ce la faccio. E allora è il caso – dato che la posizione leggermente sopraelevata sulla quale ci troviamo ci restituisce una prospettiva ancora più impietosa – di ripassare il Gran Manuale Delle Situazioni Di Merda Nelle Quali Ti Infili, al capitolo Buone Norme Di Comportamento Rispetto Ai Guadi In Mezzo All’Islanda. Regola numero uno: la corrente è più veloce al centro nei tratti rettilinei, altrimenti lo è in corrispondenza delle anse; regola numero due: essendo glaciali, questi fiumi conviene attraversarli la mattina presto (dove si originano si sta sciogliendo meno roba). Regola tre: stai lontano dalle cascate. Regola tre bis: e non attraversare cose in piena: le riconosci perché l’acqua è sporca, si muove poco, galleggiano detriti. Quattro: se la superficie di un fiume è eccessivamente tranquilla, probabilmente è troppo fondo per essere attraversato a piedi. Quattro bis: se l’acqua ti arriva al bacino, lascia perdere. Poi, cinque: potendo scegliere, per l’attraversamento dirigiti verso il punto più ampio: l’acqua sarà meno fonda, la corrente meno veloce, il piacere di dover sopportare il gelo nelle gambe e nell’addome più lungo. Per completezza, le Buone Norme ti avvertono anche di non guardare mai il pelo dell’acqua, perché perderesti l’equilibrio; ti caldeggiando di muoverti in diagonale; e ti buttano là che se, sei in due, uno dei due può camminare con una mano sulla spalla dell’altro: informazione che in genere dimentichiamo, dato che ci siamo sempre aspettati da una riva all’altra, scattandoci reciprocamente foto imbarazzanti – e per fortuna, perché fare l’ebete smussa la durezza dell’esperienza che hai appena affrontato o, peggio, che stai per affrontare. E comunque siamo sempre in due: e buona norma dice di non attraversare mai da soli: se lo sei, aspetta che arrivi qualcun’altro.
Dalla XI tappa
Riflettendo, riesco a dare forma a un pensiero riguardo l’Islanda: l’Islanda è una Isola Donna: fragile, delicata, eppure non te ne fa passare liscia una. E quando fai delle stupidaggini – anche (e spesso) solo per leggerezza – ti tratta in maniera durissima: e di un duro spietato, ingigantito, “troppo”, indipendentemente dal livello della stupidaggini che tu hai fatto. Eppure, ogni malagrazia che le viene fatta le resta incisa sopra come una cicatrice: a questo si riferivano sicuramente i cartelli che ci dicevano di non uscire dalle piste battute, sul morbido terriccio degli Hálendið: morbido, i piedi che rimbalzano soffici sulla polvere lavica, eppure incapace di guarire del tutto.
Attraverso: come ho attraversato l’Islanda a piedi durante l’estate più piovosa degli ultimi trent’anni
Ti consiglio di rivolgerti alla versione paperback!
La versione paperback di Attraverso contiene 13 “disegni geografici” illustrati dall’ottimo Cristiano Polato (l’illustratore che ha pensato e realizzato la copertina) e una selezione minima di foto in bianco e nero dell’Impresa. Non ho inserito queste cose nella versione digitale, perché avrebbero perso qualità – e me ne sarebbe dispiaciuto.
Trovi entrambe le versioni su Amazon (ho autoprodotto attraverso la piattaforma Kindle).
Voglia di altri viaggi? Continua l’esplorazione su Bagaglio Leggero – il blog di Silvia e Davide