Paularo è uno di quei luoghi nei quali, per arrivarci, devi volerci venire. Oltre, sono solo strade strette, tortuose, che subiscono i capricci delle stagioni.

A tavola ci spiegano le differenze – non poi così sottili – tra la pronuncia degli abitanti di una frazione, quelli di un’altra, quelli di un’altra ancora; poi ci dicono che sono luoghi distanti al massimo tre chilometri l’uno dall’altro; poi ancora, che di frazioni ce ne sono tredici. E che il vero paularino ha la R moscia.

La mattina, quando il sentiero ci ha portati a vista del panorama sulla Valle di Incarojo dove i raggi di sole finalmente iniziavano a sciogliere le brine notturne, sopra le case si stendeva il silnezioso velo del fumo dei camini, trafitto dal rumore degli attrezzi di chi stava sistemando la catasta delle legne, il giardino di casa, o le arnie buttate giù nella notte da un cerf – un cervo.    

Paularo

Paularo si trova a 648 metri sul livello del mare. Guardando verso sud c’è il profilo migliore del Monte Sernio, verso nord la mole morbida e allungata del Monte Zermula, che è rassicurante solo se non conosci la storia, perché dietro di esso i Turchi provarono a sfondare verso sud, perché lungo la sua cresta corrono le trincee della Prima Guerra Mondiale. Tutto intorno c’è la Carnia, e solo un po’ più in là l’Austria.

Siamo stati due giorni a Paularo in occasione di un convegno; siamo stati coccolati e portati in giro, ci sono state raccontate storie e leggende, ci sono stati raccontati segreti, ci sono state mostrate le montagne con orgoglio e devozione.

Alcune immagini senza particolare ordine. Al secondo piano di una ex caserma degli Alpini, c’è un museo di “maschere” (il nome è riduttivo) che lasciano senza parole (anche questo è riduttivo) non solo per l’inventiva, il disegno, la finezza, l’imponenza; ma anche perché proprio non ti aspetti di trovarle qui; e infine, per la quantità di premi che hanno vinto e per il genio che c’è dietro. Al ristorante Cavallino si mangia da dio, e che dettaglio speciale il menù, stampato per l’occasione, che celebrava “gli alpinisti”, cioè noi che giusto un’ora prima si aveva parlato al convegno. Un altro museo: la storia dei boscaioli locali, con attrezzi e teleferiche, storie di coraggio – e di brevetti rubati – e addirittura un cason ricostruito, il “bivacco” che i menaus mettevano in piedi il primo giorno di lavoro in un nuovo bosco. Nei bar c’è tantissima vita. Sempre nei bar, il dialetto locale del friulano si fa ancora più stretto e, per noi foresti, misterioso. Le nostre guide non riescono a dirci il nome di un albero, perché qui ancora gli alberi hanno i nomi che han dato loro i vecj. A Paularo – il secondo comune più popoloso della Carnia – c’è comunità, e l’associazionismo è fortissimo.

Ma oggi siamo qui perché Paularo è anche uno dei quaranta (ad oggi) Villaggi degli Alpinisti.

Cosa sono i Villaggi degli Alpinisti?

La traduzione in italiano un po’ inganna, però. I Bergsteigerdoerfer sono, a dare retta alle parole, “villaggi di villeggianti amanti della montagna”. Sono luoghi per i quali “le montagne e l’alpinismo hanno un grande valore nell’im­magine cul­turale dei nativi del posto e dei loro ospiti”, ma che soprattutto sono consapevolmente impegnati nell’attuazione della Convenzione delle Alpi – trattato internazionale che ha come fine lo sviluppo sostenibile e la tutela dell’arco alpino.

La filosofia alla base è semplice. I Villaggi degli Alpinisti si trovano in territori dall’alto valore paesaggistico, in una natura rispettata, nella quale si può parlare di un turismo leggero, lento, non impattante. L’ambiente si intreccia alla storia locale, alle tradizioni, alle persone.

Ci raccontano che meno semplice è stata invece la procedura per diventare Villaggio degli Alpinisti (ce ne sono appena una manciata in Italia). Paularo è entrato a farne parte nel 2022 e a leggerlo, il regolamento per l’ingresso sembra scritto proprio per questa comunità.

Il suo modello di sviluppo basato sul rispetto della natura e su una gestione sostenibile delle risorse e dell’ambiente sono le virtù che hanno permesso a Paularo di entrare a far parte dal 2022 nel gruppo dei Villaggi degli alpinisti.

Giusto per dare un po’ di storia. Il progetto dei Bergsteigerdoerfer è nato nel 2008, sulla spinta dell’Österreichischer Alpenverein (il club alpino austriaco), che poi ha coinvolto i club alpini di Italia, Slovenia, Germania e Svizzera. Lo scopo è sviluppare un turismo di montagna ispirato ai principi del rispetto e della sostenibilità, che valorizzi il territorio montano con interventi a basso impatto ambientale, che si rivolga a una fascia di ospiti in cerca di una alternativa. Il “Villaggio degli alpinisti” diventa così luogo qualificato e riconosciuto, che ha nel tempo evitato il rischio di stravolgere la bellezza del un paesaggio, partendo dal principio che un ambiente con apprezzabili caratteristiche d’integrità presenta un rilevante valore e può diventare fonte di ricchezza per l’intera comunità locale.

La filosofia del Villaggio degli Alpinisti:

  • promuovere un turismo responsabile e un’accoglienza capace di trasmettere i valori locali;
  • incoraggiare l’uso della mobilità dolce;
  • contribuire alla conservazione della biodiversità e alla cura del paesaggio.

Come si racconta un Villaggio degli Alpinisti

O meglio: come si racconta un territorio delicato, prezioso perché ogni elemento naturale, ogni capitolo della sua storia, ogni persona è un filo intessuto in una trama fatta di sussurri?

Ne abbiamo parlato al Convegno Paularo e la Valle d’Incarojo: idee e strategie per un futuro sostenibile, che si è tenuto il 27 dicembre 2024. La prospettiva che abbiamo portato è stata la nostra – quella di abitanti temporanei delle valli alpine; ma anche quella di chi ogni giorno, sui social e negli articoli di blog, prova a capire quali sono le alternative alle “cime mozzafiato”, ai panorami “che sembrano dipinti”, alla montagna “spettacolare”. Quali sono le possibilità che abbiamo affinché la comunicazione possa essere un mezzo efficace per l’attrattività di un turismo attento.

La risposta? Non ce n’è una sola. E così si sono susseguiti gli interventi di chi, oltre a noi, ha provato a portare le proprie idee: Fabio Meraldi, allenatore della Nazionale Italiana di sci alpinismo, Ivana Bassi, docente di economica rurale montana all’Università di Udine, Teresa Colombara, PM del Consorzio Turistico Arta Terme Silent Alps, Giorgio Cavatorti, giornalista della rivista viaggi e pesca H2O e Jan Salcher, responsabilità del Comitato Internazionale Bergsteigerdoerfer.

Perché se quando si parla di sci alpinismo la regola sembra essere quella del rispettare quello che madre natura offre di anno in anno, altrettanto preziosa è la visione di chi porta in alto i principi dell’economia rigenerativa, ma anche di chi parla della forza di fare rete tra paesi e realtà diverse, di chi vede nel patrimonio fluviale un potenziale attrattivo enorme per il turismo di nicchia legato alla pesca e chi utilizza il progetto del Villaggio degli Alpinisti per parlare sia al turismo, ma anche alla comunità.

Eppure, del sabato mattina che apre questo articolo, con il fumo dei camini e i suoni che salgono dal paese, quello che ricordiamo sono le storie che ci sono state raccontate: rocamboleschi ricordi d’infanzia, racconti sul succedersi di fazioni politiche, terremoti e alluvioni, il corredo nuziale delle ragazze ricavato con arte dalla seta dei paracadute della guerra, le salite al Sernio delle prime alpiniste locali in gonna e scarpets, lo zappino piantato nei tronchi da far fluitare verso valle, il vino dei tanti tajut che ti vengono offerti, il profumo dei cjarsons con il cacao amaro e quello dell’aria la mattina presto.

Qualcosa del legno, qualcosa del bosco, qualcosa dello spirito del luogo.