Che le montagne nascano dal basso, non è un segreto: è logica e geologia, è la lava che viene strizzata fuori dalle crepe della superficie terrestre o, come nel caso delle “nostre” Dolomiti, strati su strati di esseri marini – gusci, carapaci, ossicini – spinte fuori da mari antichi dopo che si sono pazientemente sedimentati.
Orogenesi. Dal greco antico ὄρος, “rilievo, montagna” e γένεσις, “origine, causa produttiva”, indica in geologia il processo di formazione di un rilievo montuoso.
Di certo le montagne non sono state calate dall’alto, non sono piovute dal cielo per piantarsi nel mezzo di pascoli curati e lussureggianti lasciando giusto lo spazio alla loro base per malghe e animali che brucano (anche se spesso l’estetica potrebbe far propendere per questa interpretazione). Eppure, se guardiamo a qual è il sentire comune – quello del turismo di massa e delle frequentazioni poco attente – potrebbe sembrare che le persone credano a questa particolare orogenesi.
Le montagne in superficie
C’è una montagna che si ferma in superficie.
Il punto più alto da raggiungere. Le pagine dell’album dei rifugi frequentati da completare – ce l’ho, ce l’ho, manca, ce l’ho. La superficie di una prestazione, del “fare tempo”, del metterci meno, che ci porta a muoverci con i paraocchi. La superficie dei più: vedere il panorama più mozzafiato, il tramonto più intenso, l’alba più struggente. La superficie della perfezione da cartolina, che se manca ci innervosiamo; una perfezione prevedibilissima: l’acqua che sgorga dal tronco, la panca con l’intaglio a cuore sullo schienale, lederhosen e dirndl, il pelo dell’acqua del lago con i riflessi, i krapfen in fila per tre (con resto di qualcuno, che però è poggiato sopra le prime tre infilate).
Selfie. Fotografia scattata a sé stessi, tipicamente senza l’ausilio della temporizzazione e destinata alla condivisione in rete.
Su questa tavolozza di superfici, spicca il selfie come elemento ancora più superficiale, da appiccicare sulla superficie di quello che vediamo. Sono arrivato in cima, ecco la prova. Ho visto il panorama mozzafiato, ecco la prova. Ho mangiato il bombolone, ecco la prova.
La propria faccia sovraimposta ai soggetti di cui sopra esauriscono la capacità di concentrazione: e tutto il resto, tutto l’intorno, la base dalla quale spuntano queste montagne, sparisce. La superficie della cartolina – la cui genesi è descritta sinteticamente e benissimo nell’agile Assalto alle Alpi, di Marco Albino Ferrari – vince.
E quello che c’è alla base, sotto, in profondità?
Le montagne nascono dal basso, o meglio in basso, in profondità
Eravamo seduti al sole di un caldo pomeriggio estivo, in un angolo appartato del territorio che ci stava ospitando – quello di Sagron Mis – a chiacchierare tra un evento e l’altro. Di fronte a noi, Alessandro Gogna, alpinista e storico della montagna. Il tema: la montagna “di mezzo”.
Puoi vedere un estratto della stimolante chiacchierata con Alessandro cliccando qui.
Parliamo dell’importanza della montagna intermedia, di quella dei paesi, e soprattutto della presenza umana: una presenza che in molti trascurano, scavalcano, non vedono, ma che è invece la base.
La montagna di mezzo è quella base dalla quale le montagne mozzafiato spuntano e dalla quale, geologicamente ma anche culturalmente, socialmente, territorialmente, politicamente – potrei continuare – le stesse montagne dipendono. Perché sono il pensiero, la visione, le necessità dell’uomo (ma anche e soprattutto il suo lavoro, la fatica e i desideri) a dare forma alle montagne che svettano “al piano di sopra”. Contrapposta alla superficialità, la montagna di mezzo è la profondità – in tutti i sensi.
Montagne di mezzo. Non solo una realtà altimetrica, bensí luoghi che tengono insieme passato e futuro, rilanciando un’idea di abitare che concilia istanze climatiche sempre più stringenti, nuove energie sociali e modelli virtuosi di gestione e sviluppo della montagna.
Riprendo questa bella definizione dal saggio di Mauro Varotto Montagne di mezzo. Una nuova geografia. Mauro si è formato e ha lavorato nella stessa realtà e con gli stessi professori con i quali mi sono laureato io – il fu Dipartimento di Geografia dell’Università di Padova – e sento fortissima questa visione, “da geografi”. La montagna di mezzo è stata – poi è entrata in crisi, è sbiadita. Solo adesso si inizia a capirne il valore non solo storico, non solo paesaggistico, ma anche in prospettiva, guardando a futuri (sì, plurale) tutti da inventare. La montagna di mezzo ti obbliga ad approfondire, a scendere nel dettaglio, perché non è banale né semplice (anzi, alle volte un po’ si nasconde), né spettacolare.
Sempre Gogna: “c’è una differenza sostanziale tra solitudine e abbandono“. La solitudine è positiva: la si ricerca, amplia le nostre percezioni, ci lascia campo per riflettere, per godere della natura, per capire quello che abbiamo intorno quando, per esempio, stiamo facendo un’escursione. Discorso diverso per l’abbandono: è il lato negativo dell’assenza degli uomini, è il paesaggio che si disfa perché nessuno lo cura più.
Ed è la visione di cui sopra – le montagne mozzafiato, le montagne bellissime, i panorami e le cartoline – che può facilmente crollare nel momento in cui la sua base non regge più le spinte di abbandono, overtourism ingorvernabile e maleducato e prospettive che non tengono conto del medio e del lungo termine. La spinta della nostra disattenzione.
Vivere la montagna di mezzo
Siamo nomadi digitali, ma quando Silvia ed io ci trasferiamo in una nuova valle, veniamo percepiti come abitanti temporanei. Frequentiamo certo le terre alte, cerchiamo come tutti le cime, i panorami, le angolazioni migliori. Ma il grosso del nostro tempo lo passiamo – giocoforza, dovendo anche lavorare – nella montagna di mezzo, dove ci impegniamo per far crescere delle radici, per quanto temporanee appunto, che ci permettano di prendere nutrimento dalle persone che la montagna di mezzo la vivono e la costruiscono, e soprattutto di restituire loro qualcosa.
E queste radici possono andare in profondità e agire da punti di scambio solo quando si è nello stesso luogo non solo con il corpo, ma anche con la testa, e l’attenzione.
Condivisione. Il fatto di dividere, spartire insieme con altri: c. di un appartamento, di un percorso; più spesso fig.: la c. di una preghiera, di una passione, di una visione del futuro.
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