Ha il fascino dei luoghi che, per raggiungerli, ti devi fidare delle strade secondarie. Dei luoghi che se ne stanno tranquilli in un angolo della carta, e che potresti non vedere perché dalle cime sopra la tua testa proprio non riesci a staccare gli occhi. Ha i silenzi di camminate appartate attraverso boschi ombrosi, i prati verdi e brillanti.

E ha l’amore di persone che portano nella genetica tradizioni che potrebbero sfilacciarsi da un momento all’altro, che condividono la chiave del bar perché non ci sono risorse per assumere un barista però incontrarsi è fondamentale, e che curano un festival che profuma di corde per arrampicare, di violini, di legno scolpito.

Ed è stata proprio la terza edizione del festival Il personaggio dell’anno, a portarci nel territorio di Sagron Mis.

Sagron Mis panorama

A Sagron Mis, tra due parchi (e infinita roccia)

Quando apriamo il balcone della nostra stanza d’albergo, il versante settentrionale del Gruppo del Cimonega è troncato da nubi orizzontali. Dalla parte opposta, mentre curiosiamo le illustrazioni appese ai muri delle case del paese, le Pale di San Martino dalle nubi sono proprio avvolte, e sopra il verde intenso dei boschi c’è soltanto un grigiume che promette pioggia.

Se ti concentri, sotto alle nubi stanno esplorando i primi scalatori; gli inglesi dell’Ottocento sulle pareti lunari delle Pale e el Gabiàn – bracconiere locale, testa calda e guida improvvisata perché “a vendere la prima ascesa di un monte si faceva qualche soldo” – sul Piz di Sagron, l’elevazione più alta delle Feltrine.

A raccontarci queste storie è l’inesauribile Alessandro Gogna, alpinista, scrittore, storico delle montagne. E fondatore, insieme al consigliere comunale Maurizio Lazzaro, del festival.

Il festival in breve

Giunto alla terza edizione, il festival “Il Personaggio dell’Anno – Riconoscere per essere ri-conosciuti” è un evento culturale e di partecipazione collettiva di grande rilievo per la comunità locale, e accolto con forte plauso dai visitatori. Quest’anno, la tre giorni ha previsto una presentazione dello storico lavoro dei seggiolai con un laboratorio degli stessi, aperto al pubblico; un concerto per quartetto d’archi in una chiesetta dall’acustica perfetta; un’escursione guidata da Alessandro Gogna; la premiazione di Mauro Corona come Personaggio dell’anno a seguito di una chiacchierata con l’amico Gogna.

Il personaggio dell’anno: un festival intimo

“Guardate che solitudine è diversa da abbandono.” Ce lo dice Alessandro mentre chiacchieriamo in attesa che inizi la dimostrazione dei careghete, i seggiolai Enrico Stalliviere e Oriano Marcon. Quest’ultimo ci dice di essere l’ultimo caregheta di Sagron Mis – “ma spero non l’ultimo”, aggiunge con la sua voce bassa.

Durante i tre giorni del festival, i valori della montagna si intrecciano ai rischi che le sue persone corrono ogni giorno. Non i rischi dell’alpinismo – “noi non si camminava, si decollava”, racconterà Mauro Corona, salvo poi confidare come, una volta maturo, può liberamente dire che le tostissime scalate fatte con la spavalderia della gioventù in realtà gli mettevano dentro una inconfessabile “fifa boia“; ma i rischi dell’abbandono, del bosco che si riprende i prati, dei frassini malati e degli abeti consumati dal bostrico, delle seconde case chiuse e dei servizi che svaniscono.

Davvero a Sagron Mis ogni famiglia ha una copia delle chiavi del bar. Nel tempo, ci raccontano, diversi appuntamenti regolari si sono sedimentati a scandire le pieghe delle giornate – come il carbonato di calcio che è diventato la Dolomia delle montagne circostanti. Da sempre l’incontro regolare è un rituale, e un rituale aiuta a mantenere vive le comunità.

Lo scopo de “Il personaggio dell’anno” è, a parole, semplice: parlare. Parlare della montagna, confrontarsi, lasciar scorrere i pensieri. Il sottotitolo – riconoscere per essere riconosciuti – invita un personaggio (lo scalatore Manolo per la prima edizione, il violinista Glauco Bertagnin per la seconda, Mauro Corona quest’anno) perché il suo magnetismo attiri parole, ragionamenti, concetti e – perché no – interesse turistico.

Di tutte le cose belle che si possono dire di un piccolo festival – di un festival intimo – la più bella è che ti permette di scavare in profondità; purché, come quando percorri un sentiero, tu abbia orecchie sensibili alle cose più minute.

Pale di San Martino

La lopa, la carice che, con le istruzioni di Oriano accarezzo, torco, tiro e giro attorno alla struttura dello sgabello per farne la seduta impagliata; un rifugio nel bosco quasi avvolto da ordinate cataste di legna; uno scontro fisico ma immobile tra gli archi che gonfiano Rossini dentro una veneranda chiesetta di montagna, in una sera che si è prolungata tantissimo senza che nessuno se ne accorgesse; il gorgoglio delle fontane di paese – una di quelle cose che più profondamente dicono ti accolgo; il senso di avventura: Mauro Corona perso da qualche parte tra Agordo e Tonadico, noi a seguire un sentiero dismesso tra altissime felci e inquietanti slavaz, la mitologia delle imprese che Gogna lascia intuire nei discorsi; ma anche l’umanità incredibile di una lingua, lo scapelament del contha, inventata per non farsi capire quando sei a cinquecento chilometri da casa, anche se “casa” sono fatiche e fame e inverno; e poi ancora, a chiudere il cerchio, il profumo della lopa sulle mani e il senso di lenta meditazione – ma con avambracci d’acciaio – del lavoro del seggiolaio.

Mauro Corona, personaggio dell’anno

Come previsto, il tendone è gremito per la chiacchierata tra Mauro Corona e Alessandro Gogna, amici di lunga data. Alternando il suo io più roboante a quello lapidario, le citazioni letterarie agli aneddoti ad alta gradazione alcolica, Corona ondeggia attorno alle domande di Gogna come un selvatico, schivando la risposta diretta ma ammonticchiando una sopra l’altra pietre coerenti, nello stesso processo che ha materializzato le centinaia di chilometri di muretti a secco che regimentano i versanti alpini.

Una volta che il muschio minaccia di riprenderseli, sta a te avere la capacità di distinguere il muretto dal bosco, e dargli significato.

Non è banale, ma si può fare.

Uscendo dal tendone, mi annuso le dita: resta una traccia del profumo amaro della lopa. E la montagna minore, quella appartata all’angolo della carta topografica, è forse come quella stessa erba nelle mani del seggiolaio: un intreccio di valori in pericolo, solitudine e abbandono, boschi che vogliono riprendersi i prati e uomini che pazienti, anno dopo anno, ne ribadiscono le forme.

Intrecci forse indissolubili.