Ad un certo punto, siamo stati costretti a chiedercelo: quanto danneggia il pianeta la nostra passione per l’outdoor in montagna (e, guardando certi canali social, la passione di alcuni per l’abbigliamento tecnico all’ultima moda)?
Ci siamo arrivati per percorsi diversi e, ohimè, convergenti. Da una parte, il fatto che dedichiamo sempre più tempo alla vita all’aria aperta, ai trekking, alla montagna. Dall’altra, la percezione fin troppo chiara del cambiamento climatico: non solo quello descritto dai dati della scienza, ma anche quello visto con i nostri occhi, e quello che ci raccontano “i locali” delle valli nelle quali finiamo con il nostro nomadismo digitale.
Dall’altra, le letture – perché bisogna sempre leggere e informarsi, giusto?
Il risultato: ci siamo trovati a ragionare tra la paura di impattare più del dovuto sull’ambiente e la voglia di provare a fare del nostro meglio per ridurre la nostra impronta.
Questo è quello che abbiamo scoperto.
La produzione dei capi di abbigliamento outdoor
Ma prima: la storia di Patagonia
Ok, ho letto il libro Let my people go surfing di Yvon Chouinard, e ne sono rimasto affascinato. Lui è il fondatore di Patagonia, e il libro è densissimo: parole di uno “fuori”, di occhi che hanno visto le cose prima degli altri, di un cervello (il suo, ma anche quello dell’azienda) che davvero ha fatto e fa tutto il possibile per ridurre il carico della sua attività sull’ambiente. Leggerlo ti fa tifare per lui, per loro, e per chi ha voglia di pensare prima all’ambiente e non al business. Ora, non voglio né riassumerlo in preda all’entusiasmo né spoilerarlo, ma te lo metto qui nel caso tu volessi comprarlo – decisamente consigliato.
Il fatto è che il buon Yvon si è accorto molto presto che ogni attività outdoor umana lascia una traccia più o meno indelebile sul pianeta. La storia del suo impegno per migliorare i materiali, la durata e il design dei capi Patagonia è esaltante, e mostra che si può fare molto per ridurne l’impatto complessivo.
Aspetta però: cosa significa “migliorare i materiali”?
Perché l’abbigliamento tecnico può danneggiare all’ambiente?
Lo fa per due problematiche distinte: la prima di ordine produttivo, la seconda legata alla vita del capo di abbigliamento stesso.
I materiali dell’abbigliamento tecnico
Le colpevoli sono le fibre sintetiche, poliesteri e nylon in primis. Derivate da una risorsa non rinnovabile, inquinanti in lavorazione, in uso e a fine del ciclo di vita, risulta difficile difenderle. Peccato che quando scopri che anche lana e cotone – due fibre naturali, giusto? – sono responsabili di danni ambientali, ti gira la testa. La coltivazione (o l’allevamento) richiedono risorse enormi, soprattutto idriche, e danneggiano gli ecosistemi con la monocoltura (ecologicamente terribili) o l’over grazing delle pecore. Ci sono poi i processi di trattamento delle fibre, quelli di colorazione, quelli per la durata del colore o l’impermeabilità. Un disastro su molti piani. Aggiungici il concetto di fast fashion – un apostrofo nero tra le parole “dio” e “denaro” – e la frittata è fatta.
Patagonia è stata la prima a suggerire di passare dal cosiddetto cotone industriale a quello coltivato secondo parametri biologici e sostenibili: il cotone organico.
Nota bene che in questa categoria di problematiche ricadono anche le questioni sociali ed etiche: costo del lavoro, sfruttamento, latifondismo, eccetera. Ma per non farci venire un’ulcera, concentriamoci su quelli strettamente ambientali.
Cosa fare, quindi?
Le certificazioni di sostenibilità dell’abbigliamento
Esistono diversi istituti che certificano la sostenibilità delle fibre usate nel tessile. Puoi vedere alcuni loghi nel carosello in alto, questo è un breve (e non comprensivo) prontuario:
- Eu-Ecolabel – marchio europeo che certifica il rispetto dell’ambiente da parte del prodotto in tutto il suo ciclo di vita.
- GOTS – Global Organic Textile Standard – garantisce che i prodotti tessili biologici siano ottenuti nel rispetto di stringenti criteri ambientali e sociali applicati a tutti i livelli della produzione.
- OEKO-TEX® – garantisce che i prodotti tessili non contengano o rilascino sostanze dannose per la salute umana. È un po’ “antropocentrica”, ma punta comunque a ridurre le sostanze chimiche in giro.
- Ecocert – dice che i materiali sono stati cresciuti secondo la Standard Organic Content Standard.
- OCS – Organic Content Standard, indica prodotti tessili realizzati con fibre naturali – vegetali o animali – prodotte e certificate in accordo coi criteri dell’agricoltura biologica.
- 100 Claim Standard – verifica la presenza e la quantità di materiale riciclato nel prodotto finito.
- Naturtextil – europeo, viene dato a prodotti realizzati al 100% con fibre ecologiche certificate. in più non ammette l’uso di elastane, sbiancanti ottici, immersione in soda caustica.
Che fatica… e non finiscono nemmeno qui!
Ma torniamo alle fibre sintetiche.
Abbigliamento tecnico e microplastiche
Non bastassero le conseguenze della produzione, è anche la vita stessa del capo di abbigliamento a danneggiare l’ambiente.
Tralasciando il fatto che il capo prodotto deve essere movimentato da una parte all’altra del globo, con il conseguente consumo di risorse e produzione di CO2 (e se cercassi delle aziende locali che producono secondo i parametri di cui sopra?), c’è l’abbinamento per ora inscindibile di
abbigliamento tecnico = microplastiche
Per microplastiche si intendono le particelle di diametro inferiore ai 5 mm che i prodotti di plastica rilasciano nel corso della loro vita. Capi di abbigliamento sintetici compresi: lo fanno con l’usura, con i lavaggi (in media 1,7 grammi per capo ad ogni lavaggio) e con un non corretto smaltimento. Le microplastiche sono uno dei pericoli maggiori per l’ambiente in quanto non si decompongono, ma si “sciolgono” una volta raggiunto il mare: il loro diametro si riduce e, attraverso gli esseri viventi, entrano nella catena alimentare e quindi anche nel nostro corpo.
Bad karma, ragazzi.
Varie ed eventuali. Le microplastiche interessano anche i capi realizzati con poliestere riciclato. Gli impianti di trattamento delle acque non riescono a trattenere le microplastiche più sottili. Una volta in mare, le particelle plastiche attraggono sostanze chimiche, trasformandosi in vere bombe tossiche.
Ad essere particolarmente fetenti, sono poi le molecole con le quali si impermeabilizzano i capi (i PFC con i quali si realizza il Durable Water Repellent o DWR): tossiche e durevolissime, perché il legame molecolare che le distingue è tra i più forti in natura.
Ah, se cerchi un lieto fine… sappi che anche le fibre naturali, se oggetto di certi trattamenti o colorazioni, possono rilasciare microplastiche. Quindi, si torna alle certificazioni di cui sopra.
La soluzione alle microplastiche
Un primo passo, a livello ambientale, è stato fatto con l’introduzione di sostanze plastiche ottenute dal riciclo: nell’ambito dell’abbigliamento da montagna lo fanno Patagonia, Ternua e altri marchi. Nelle etichette dei loro capi potrai leggere che, ad esempio, con sei bottiglie salvate dalla discarica viene realizzato una giacca o un paio di leggings.
Per le microplastiche, si entra più che altro nel campo del dilemma: leggerai che esistono dei sacchetti (washing bag) nei quali lavare i capi o dei filtri da applicare alla lavatrice, ma le microplastiche trattenute comunque poi finiranno in discarica, o incenerite.
Alcuni marchi stanno riducendo le quantità di sostanze chimiche dannose utilizzate, ad esempio riducendo quel malefico legame dei PCB nel cosiddetto C6, meno durevole in natura. Si stanno cercando anche soluzioni alternative nelle fibre alternative ricavate da alghe e canapa, nonché soluzioni di design che aumentino la percentuale di fibre naturali nei singoli capi.
I brand di abbigliamento tecnico outdoor sostenibili
Destreggiarsi tra i vari marchi non è semplice: chi eccelle in uno degli elementi che determinano la sostenibilità di un capo, magari scivola su altro. Ti segnaliamo però alcuni brand che stanno attuando politiche di attenzione verso questa problematica:
- Patagonia, già. Il primo brand e probabilmente il più attento.
- Fjällräven, marchio svedese che utilizza materie prime eco-friendly e promuove campagne per la protezione degli animali.
- Ternua, brand di abbigliamento da montagna spagnolo con grande attenzione nell’utilizzo di materiali riciclati o biodegradabili.
- Vaude, i cui prodotti sono dal 2021 “climate neutral” in termini di emissioni di CO2.
- Mammut, azienda svizzera che negli ultimi anni si è distinta nell’utilizzo dei materiali riciclati (es. utilizzando vecchie corde d’arrampicata per produrre t-shirt).
- Rewoolution, abbigliamento in pura lana merino della Nuova Zelanda con particolare attenzione a tutta la filiera produttiva.
Ma non sono le uniche aziende (fortunatamente) che stanno facendo enormi passi avanti nella sostenibilità.
In ultima ti segnalo anche un altro brand di abbigliamento (non tecnico) della quale filosofia siamo rimasti molto colpiti: Produzione Lenta. Dalla scelta del cotone, alla cura dell’eticità di tutto il ciclo produttivo fino alla consegna: un brand buono davvero, sotto tutti i punti di vista, e bello (le grafiche a tema montagna sono splendide!).
Il consumo: è qui che entri in gioco tu
Dato che però una via d’uscita completa non c’è, ecco che il vero punto cruciale della catena è un altro. Non serve un ingegnere aerospaziale: più capi tecnici vengono immessi sul mercato, più rifiuti, scarti e microplastiche produciamo. Punto.
Non c’è una vera soluzione a questa equazione, se non quella di consumare meno, strisciando la carta solo quando un capo di abbigliamento ci serve davvero.
Sei di quelli che nei negozi di outdoor vanno a fare shopping tanto quanto i nostri derisi “frequentatori del centro commerciale”? Ti meriti una bacchettata sulle mani.
Sei di quelli che ad ogni stagione cambiano guardaroba? Te ne meriti due.
Sei di quelli che si fanno abbindolare dall’estremo low cost (che dovrebbe far suonare dei campanelli d’allarme riguardo a produzione o durata) o da capi dal design poco chiaro (cosa te ne fai di dodici tasche con cerniera sulla giacca?). Altre bacchettate.
Se te lo stai chiedendo… perché ce l’ho con il sovrannumero di cerniere sulle giacche? Un capo d’abbigliamento deve avere quante meno parti passibili di rottura o usura.
Abbigliamento da montagna sostenibile: oltre ai brand c’è di più!
Non è che possiamo cambiare il paradigma del consumismo con un articolo sull’abbigliamento da montagna… ma il senso è proprio questo:
- compra soltanto quando ti serve. Se ad esempio non hai mai ciaspolato, e gli amici ti invitano a provare, non comprati l’intero completo da ciaspolatore professionista: puoi benissimo arrangiarti con quello che hai (e qualcosa a prestito o noleggiato). Perché nel caso ciaspolare poi non ti piaccia, quella roba rimane in armadio (dove peraltro si rovina).
- frequenta il mondo dell’usato. La scena second hand c’è, basta saperla trovare. Ci sono i mercatini sui social, i passaparola, le app… e alcuni negozi specializzati organizzano mercatini stagionali di attrezzatura invernale (qualche pantalone, giacca o scarpone salta fuori sempre)
- compra ricondizionato. Alcuni brand (ci viene in mente Osprey con i suoi zaini) ricondizionano e mettono in vendita online capi e attrezzatura usati come nuovi.
- tramanda i tuoi capi dismessi, o eredita quelli dismessi da altri. Che sia perché qualcuno ha preso cinque kg in quarantena, o cinque anni perché è cresciuto… non vale la pena di buttare! Da questo punto di vista, il comportamento delle famiglie numerose è un bell’esempio.
E poi gli oggetti hanno una vita e una storia, e quello scarpone che tira le cuoia dopo quattrocento escursioni può dire di avere anche lui vissuto una vita ricchissima, no?
Consigli per vestirti in modo sostenibile
Al netto che non sei un bushcrafter abituato all’essenziale, una giacca in più, qualche maglia termica di ricambio, un pile carino per le grandi occasioni ce l’hai sicuramente. Questi sono alcuni suggerimenti (corroborati dalla scienza e dal buon senso):
- Se puoi, ripara. L’esempio virtuoso è ancora quello di Patagonia, che ti ripara un capo spesso anche fuori garanzia. Ma una zia per un rattoppo, una nonna per una modifica creativa, un calzolaio vecchia scuola che sappia risuolare uno scarpone ramponabile, li trovi.
- Riduci i lavaggi al minimo. Diversi studi sul life cycle dei prodotti concordano sul fatto che uno dei punti più dannosi per l’ambiente sia il lavaggio dei capi – peggio se a secco. Non c’è bisogno di fare una lavatrice perché i pantaloni hanno una macchiolina di fango, insomma.
- Non stirare. Posto che il tempo è denaro, e chi può permettersi di sprecarlo davanti all’asse da stiro… ma sappi che stirare rappresenta un utilizzo a vuoto di energia elettrica. Fortuna vuole che siano rarissimi i capi outdoor che necessitano di stiraggio (unica eccezione, il ravvivamento del goretex, che si fa con il ferro da stiro).
Infine, una ultima nota. Lo strappetto, il taglio che ti sei fatto con i ramponi sul risvolto, la scoloritura, i “pallini” di certi tessuti: siamo sicuri di non essere in grado di sopportarli? Non sarebbe forse il caso di abbassare la parte estetica dei nostri canoni di vita, e di prediligere quelle ambientali e funzionali?
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