Siamo bancomat che camminano. Siamo clienti in potenza, aspettiamo giusto di essere trasformati, aspettiamo che qualcuno ci conduca con affabulazione nel posto giusto, ci proponga il prodotto giusto. Un sari, una pashmina, un completo da uomo fatto su misura, un anello con zaffiro, dell’argenteria: noi non sappiamo quale sia, il prodotto giusto, ma il nostro affabulatore sì. Abbiamo una parte ben precisa in decine di migliaia di copioni, molto simili tra loro – la nostra è sempre molto stringata, dato che siamo per lo più ascoltatori di monologhi raffinatissimi, recitati tutti d’un fiato, ai quali annuire attenti.
Alle volte (gli attori) ti vengono incontro. Altre volte intercettano la tua traiettoria. Altre ancora ti seguono piano, silenziosi come i coccodrilli nell’acqua, solo gli occhi a spuntare dalla superficie. (Questa tecnica è peculiare dei guidatori di tuk tuk.)
Tutti aspettano per mettersi in moto solo un’apertura. Un tentennamento, un controllare la mappa.
Non devi mai abbassare la guardia.
This is India / Don’t catch you slipping up.
E’ tutto fermo e insolitamente tranquillo nella Jodhpur delle 8 di mattina. Dal treno notturno all’albergo nessuno ci ha intercettati né fermati.
Non ci è stato proposto niente.
Lo faranno nelle prossime ore, oh sì.
Saliamo direttamente al rooftop dell’albergo. Nell’aria leggermente velata il forte Mehrangarh è un monolite orizzontale di un altro pianeta, alto su una distesa di tetti piatti stretti tra loro che chiedono un inseguimento cinematografico tutto salti e scavalcate.
Siamo accolti dalla più classica delle intro, Which country?
Sono in due. Quello di sessant’anni con i pantaloni color kaki e la camicia aperta sul petto, TK, è il titolare dell’albergo. L’altro, in tuta azzurra, è un coach di pugilato, ed è il cavallo di Troia che apre i portoni della conversazione.
Questa notte un suo atleta ha vinto una medaglia internazionale in Polonia.
Volete venire a vedere un allenamento questa sera? Siete ospiti. Ci vediamo qui sotto alle 18.
Silvia si irrigidisce, tergiversa. Nelle ultime due settimane snodi narrativi di questo tipo ci hanno portati in negozi di stoffe, di spezie, di gioielli, in ristoranti, in hotel, affittacamere, scuole d’arte da sovvenzionare. In templi nei quali pagare preghiere salvifiche quotate 500 rupie per dieci minuti.
Io sono invece una divinità indiana, ho braccia numerose che proteggono, con le quali defletto proposte commerciali, insistenze e tuk tuk.
Ma gli inviti curiosi mi restano impigliati contro.
*
Alle 18 il sole è davanti a noi. Siamo passeggeri di due motorini mentre scorrono da tutte le direzioni e in tutte le direzioni le strade di Johdpur. Sono decine di strati di traffico che si muovono a velocità diverse in un parallasse scattoso che dopo quindici giorni di India non ci stupisce più.
Il cortile della scuola è delimitato da edifici rettangolari scarni, di mattoni brunicci. Ci fanno scendere di fronte all’ultimo portone, sotto l’insegna GYM.
La scena che si spiega davanti a noi è inaspettata, subito chiara, e ci fa sudare le mani.
Veniamo fatti accomodare su sedie messe lungo una parete, con tavoli di fronte.
Nello stanzone una moltitudine di ragazzini sta calciando palle di plastica intrecciata attraverso una rete da pallavolo.
A un cenno di TK i ragazzini si ordinano davanti a noi in file crescenti e ordinate per età e sesso. Veniamo presentati come prestigiosi ospiti internazionali in visita.
Ogni ragazzino dichiara il suo nome, l’età, la classe scolastica, e da quanto gioca a Sepak takraw – questo gioco tutto sudest-asiatico con rete e palla di plastica.
TK ora introduce un duplice discorso motivazionale: Silvia avrebbe parlato alle ragazzine, io ai ragazzini. Improvvisiamo parole in un inglese imbarazzato: le mie parlano di cuore, tarda scoperta, voi approfittate che potete farlo da subito.
Ci vengono portate corone di tageti, mentre una ricchezza di fotografie, video condivisi in diretta sui social e sorrisi e strette di mano avvolge un’occasione ufficiale e importante messa in piedi dal nulla, con nulla, e che scorre liscia sotto lo sguardo attento, arcigno e allo stesso tempo paterno di TK.
I ragazzini sono in visibilio.
Facciamo una monumentale foto di gruppo, dove Silvia ed io, centralissimi, siamo gli unici seduti.
Solo un’ora dopo saremo in un altro posto – un campus universitario, qualche strada di motorino da lì.
Il sole starà tramontando, e ci sarà un ring al centro di un piazzale alberato. Altre corone di fiori si saranno accumulate sulle nostre spalle. Avremo fatto gli stupidi sul ring con addosso i guantoni, fotografie come Rocky e Ivan Drago prima dell’incontro. Daremo il via a un incontro di ragazzini che se le suoneranno con grinta. Faremo altri discorsi motivazionali, altre domande, altre battute.
La settantina di ragazzi – famiglia povera, poche possibilità – ci circonderanno a chiederci dell’Italia, a toccare i capelli biondi di Silvia.
Nel centinaio di foto che vengono scattate tutti si metteranno nella muscle pose, sorridendo, dicendo “muscles” allo scatto.
Come sempre, a TK non sfugge niente. È lo zio che ti insegna la vita, che controlla la tua condotta, che ti insegna come ribellarti ai bulletti, che ti indica una vita possibile.
Lui ce la mette tutta e i ragazzi in cambio ce la mettono tutta. E’ evidente. Le più peperine e motivate sono le ragazzine. E in quel momento sono tutti lì. Nessuno di loro sta usando uno smartphone. Il nostro contatto Facebook è un foglietto che levita quasi fatto a brandelli sopra decine di mani che lo vogliono afferrare.
Gli improvvisatori dicono accetta le proposte, succederanno cose belle.
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Per le 20 stiamo scendendo dai motorini, di fronte all’albergo.
E tutto finisce lì, senza negoziazioni, senza vendita, senza monologhi, senza upselling.
E quelli in visibilio siamo noi, mentre appendiamo le corone di fiori alle maniglie delle finestre della nostra stanza.
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Il nostro viaggio in India è durato tre settimane ed è stato durissimo sotto tanti punti di vista. Le cose da vedere e da fare le puoi trovare ovunque, abbiamo scritto un articolo sulle cose da sapere prima di partire e qualche altro consiglio che può esserti utile, ma la vera India è fatta di sensazioni, e questo è il modo in cui ci piace raccontartela. Il giorno dopo questa esperienza ci siamo ritrovati a Pushkar, città dalla forte spiritualità: secondo te, l’abbiamo trovata davvero?
Bellissimo racconto, sembra di leggere un romanzo.
Mai stata in india, come viaggiatrice solitaria credo di non essere ancora pronta.
Credo di si, penso che l’avete trovata la forte spiritualità, traspare dalle tue parole.
Ciao Monica, ti ringrazio per le bellissime parole. Le mie – di parole – invece è stato difficile trovarle. Come raccontare una delle esperienze più sconvolgenti che mi siano capitate in viaggio? Come farle uscire senza esserne gelosa? Grazie per il tuo apprezzamento.
L’India è un Paese che va visto al momento giusto e solo tu saprai quando sarà il tuo.
Ps: dalla sensibilità che traspare dalle tue parole avrei giurato che saresti finita qui. Un abbraccio
Che splendido racconto! Anche a me tante volte è capitato, viaggiando nel mondo, che un invito a visitare la vita vera di una città si tramutasse in una visita di un negozio o artigiano… E invece a quanto pare ci sono ancora luoghi dove si può vivere la magia senza il portafoglio in mano.
Dopo tre mesi di India non ne potevamo più! Mano alta, scuotimento di testa, giravolta di sguardi e ancora mano alta eccetera.
E così succede spesso Silvia, in molti Paesi in cui le differenze economiche sono tutt’altro che scontate.
Com’è facile allora indurirsi…eppure le cose belle accadono quando meno te le aspetti.
In India non sono mai stata ma di storie dove i turisti sono bancomat ambulanti ne ho sentite moltissime. Quindi leggere di una bella esperienza, fatta di cuore e voglia di conoscersi fra culture, è stato sorprendente. Sicuramente voi che l’avete vissuto sulla vostra pelle, porterete questo ricordo dentro con tanta dolcezza.