Poi succede che il tuo viaggio in India ti porti verso un “uno-due” veloce di mete, e ne esce una di quelle situazioni dove mille dettagli e diecimila sfumature stimolano riflessioni sull’umanità e generano punti di domanda… ma poi ci sono ancora un milione almeno di cose da vedere, guardare, provare a dirsi Perché mai è così?

L’India davvero “non è mai finita”.

Tra Johdpur e Jaipur: l’itinerario

Siamo in Rajasthan.

Organizzando le tre settimane del nostro itinerario indiano, avevamo pensato di arrivare ad Ajmer da Jodphur in treno, e muoverci da qui per andare a Pushkar, la bianca città sacra dell’Induismo. Ci siamo resi conto poi, giocando di incastro con i vari mezzi di trasporto che avremmo dovuto prendere, che potevamo infilare anche una veloce visita alla moschea di Ajmer.

A Jodhpur avevamo appena vissuto una delle più belle esperienze del nostro viaggio in India: l’incontro con TK Singh e i suoi giovanissimi atleti. A Pushkar l’obiettivo è la spiritualità: la cittadina vanta 400 templi, e deve il suo nome (composto da pushpa, fiore, e kar, mano) alla leggenda che ne deriva i laghi dai petali caduti nientemeno che dalle mani di Brahma, il dio creatore. La troveremo?

Ghat di Pushkar al tramonto

Pushkar: hippy e spiritualità

Comunque, eccoci scesi alla stazione dei treni di Ajmer dopo un classico viaggio in classe seconda/sleepers. Prendiamo subito un tuk tuk che, con la solita guida indiavolatissima, scavalca la collina del Serpente – un nome piuttosto simbolico per una cosa che separa le città sacre di due religioni sensibilmente diverse. Saliti e scesi dai tornanti in meno di un’ora, siamo all’ingresso di Pushkar, dove per poter entrare in città si pagano dieci simboliche rupie a una delle annoiatissime guardie.

Prendiamo possesso di una stanza d’albergo molto carina e pulita, che però scopriremo essere affacciata su un incrocio di vicoli rumorosi fin tardi la sera… e prestissimo la mattina!

Abbiamo un pomeriggio e una sera da passare a Pushkar, perché l’indomani il progetto è quello di prendere molto presto un mezzo per Ajmer, lasciare gli zaini al deposito bagagli della stazione, fiondarci alla moschea – che si trova in centro – visitarla,e tornare a prendere il treno del primo pomeriggio per Jaipur.

In un attimo siamo in Sadar Bazaar, la strada principale del paese.

Ci è subito evidente che se non hai interesse nel fumare marjuana e nel bere birre con gli hippy che affollano Pushkar, un pomeriggio in città è più che sufficiente. Lo capiamo dal tono delle magliette appese ai mille negozietti di souvenir: molte hanno scritto “Pushkar = No stress”, ma la più significativa dice “Chai, chilum, chapati”.

Facciamo un po’ di vasche lungo il Bazaar guardando le merci esposte, ma se da una parte ci rilassiamo perché effettivamente non ci sono macchine (è uno dei vanti di Pushkar, e ci sono anche pochi motorini rispetto la media), dall’altra ci deprimiamo un poco: è tutto davvero troppo, troppo turistico.

Come sempre, nei luoghi che ti vengono venduti come super-spirituali, la spiritualità devi cercarla. O devi esserne predisposto, mah.

Strade Pushkar

Le vie sono poi piene di vecchi hippy – li vedi che probabilmente si sono fermati qui decenni fa, e proprio qui hanno tirato i remi in barca – e ragazzi e ragazze che dell’hippy hanno sicuramente la trasandatezza e i rasta, ma forse sono più orientati alla parte psichedelica di quella cultura. Peraltro, su tutto il territorio cittadino non si potrebbe vendere né consumare uova, carne e alcolici: il condizionale è d’obbligo.

Di contro questo è davvero uno dei posti in India dove poter fare acquisti “european friendly”, manufatti, oggettistica e souvenir dell’India patinata che ti aspetti di trovare.

Silvia V - Viaggi, avventure, scoperte, montagnaSilvia

Negozi indiani

Mangiamo un boccone, e andiamo a visitare il tempio di Brahma (Brahma temple). Anche qui, come in decine di altri templi induisti che abbiamo visitato durante il nostro viaggio indiano, la devozione è veloce e caotica, e sembra esaurirsi in un lancio di fiori e zuccherini alle statue delle divinità…

Nota bene: non ci sono molti templi dedicati a Brahma, in India, perché questa divinità fu maledetta dalla moglie Savitri perché, invece che lei, aveva invitato a un importante rituale Gayatri, una ragazza mortale.

Vale la pena passare a vedere anche l’ingresso del Rangji Temple, scolpito con centinaia di immagini di divinità.

Torniamo a fare le vasche.

Il vero incontro spirituale a Pushkar

Ora. Può piacerti come no: per me era una specie di mito bizzarro, che mai avrei pensato di incontrare (più che altro, nella mia distrazione non avevo capito che il suo shop si trovasse proprio qui). Sto parlando di Baba il barbiere cosmico. Se frequenti internet con assiduità, saprai sicuramente chi è.

Baba the cosmic barbeer

Comunque: lo incrociamo, ci scambiamo uno sguardo – dubbioso il mio, mega sorridente il suo – e finiamo nel suo minuscolo barber shop per il trattamento di taglio capelli e massaggio cosmico per il quale è famoso.

Carissimo rispetto a qualunque altra cosa ci siamo concessi in India, ma cosa devo dirvi: è stato bello così.

Ohimé, stando a recenti notizie reperite online, Baba sembra essere morto pochi mesi dopo il nostro incontro. Vero? Falso? O forse aggiunge mistero a un personaggio già di per sé, in qualche modo, misterioso?

Usciamo, e andiamo a sederci su un ghat lungo il lago, dove si celebrano i rituali religiosi. È l’ora del tramonto, i ghat sono bianchi, beige, color panna; la superficie del lago è placida, e l’atmosfera è – ora sì – davvero bella. Basta evitare i numerosi venditori di fiori da cerimonia (non accettarli mai, anche se sembrano regali: non sono gratuiti), gli attaccabottone – che tendono a stalkerizzare le ragazze, preferibilmente se sole – e i vari pseudo santoni che ti promettono preghiere in cambio di soldi. Ci godiamo il cielo diventare azzurrino e poi rosa, e sentiamo che per noi Pushkar finisce qui.

Non è il tipo di spiritualità che cerchiamo, e c’è un Rajasthan diverso che ci aspetta.

Lago di Pushkar

Pushkar sì o Pushkar no?

È presto detto. Se sei un tipo da “Chai, chilum e chapati”, se ti piace la cultura hippy, se vuoi un po’ di India senza troppo caos, ma con abbastanza negozietti e ristorantini tra i quali passare il tempo, e sai già destreggiarti tra le richieste di offerte, beh: allora “sì”.

Se cerchi un’India “vera”, qualunque cosa voglia dire, e meno esteriore (anche al prezzo di caos e turbinio) secondo noi è “no”.

È “si” anche se ti trovi a passare da queste parti tra ottobre e novembre, quando si svolge la gigantesca fiera del bestiame. Si tratta di un evento spettacolare, che attira migliaia di persone tra allevatori, turisti e pellegrini. Si dice che l’atmosfera, per le due settimane della fiera, sia festosa e chiassosa, ma allo stesso tempo anche spirituale (soprattutto al culmine, durante la notte del plenilunio). 

Pushkar lake

Ajmer, la città di pellegrinaggio dei musulmani d’India

Stranamente la Lonely Planet non accennava a pericoli o cose da stare in guardia, riguardo Ajmer: e ne chiudeva la descrizione in pochi paragrafetti. L’unica cosa notabile ad Ajmer è la più grande moschea di pellegrinaggio indiana. È il Dargah Sharif, famosa in tutto il subcontinente, e luogo della sepoltura di un grande santo sufi.

Eravamo incuriositi dal fatto che si trovi a così poca distanza da Pushkar, città santa per tutt’altro genere di religione: l’induismo.

Ci svegliamo presto, e saliamo sul taxi che ci eravamo fatti prenotare dall’albergo. Torniamo ad Ajmer in un taxi talmente scassato che l’autista farà benzina ad un distributore con il piazzale in discesa, per avere una “rampa di lancio” utile a riavviare il motore una volta fatto il pieno. Lasciamo i bagagli al deposito della stazione dei treni, e prendiamo la strada che porta direttamente alla moschea. Pur essendo dritta, la strada via via diventa stretta come un budello, talmente incassata tra gli edifici che il sole probabilmente non ci arriva mai.

Man mano che si restringe, e che ci avviciniamo alla moschea, aumentano le richieste di elemosina.

Dargah Sharif ad Ajmer

All’ingresso della moschea – che essendo anch’essa piantata tra gli edifici, non è per nulla individuabile – c’è tutta la trafila di lasciare le scarpe, lasciare lo zainetto, pagare, tentare di rifiutare dei fiori da omaggiare, schivare le guide prezzolate che ti prendono di mira perché non puoi entrarci da solo, devi essere accompagnato (spoiler: non è vero), e poi devi avere il cappellino per coprirti la testa, e c’è ressa perché più il fedele pellegrino si avvicina alla meta del pellegrinaggio, più sembrano aumentare il fervore, l’agitazione, l’ansia. E l’impazienza.

Un tipo ci guida dentro, ma appena all’interno lo seminiamo… e forse sbagliamo.

Il cortile della moschea, cinto da alte mura, è ingombro di bancarelle che vendono soprattutto gioielli. L’atmosfera è più quella del bazar che quella di un luogo sacro, ma – pensiamo – tutti i luoghi sacri in India sono vissuti in modi molto lontani da quelli cattolici e cristiani.

Ci mettiamo in coda dove tutti sono in coda.

La coda è lentissima, e punta verso un edificio cubico con aperture su ogni lato alte, ma strette. L’indiano medio spinge, in ogni occasione. Con la pancia se è uomo, con la pancia se è donna. Fa caldo. Alla fine superiamo un “guardiano” che sventola le teste di ciascuno con delle piume di pavone… tranne le nostre. Anzi: ci pare di riconoscere uno sguardo ostile. A questo sventolatore tutti danno banconote, che lui passa a un “collaboratore” che ne ha mazzi interi in mano.

Entriamo nell’edificio cubico, rivestito di marmi bianchi incisi e decorazioni calligrafiche, al cui centro c’è un baldacchino o un altare protetto da una ringhiera, all’interno della quale tre persone prendono i vassoi di offerte che le persone porgono (contengono fiori, zuccherini, statuine, pezzi di stoffa, monete e banconote) e se li rovesciano alle spalle. In cambio del rovesciamento, il fedele riceve una benedizione.

Il corridoio fa il giro tutto attorno questo baldacchino, e teoricamente c’è una uscita e un flusso forzato.

Non ci sono persone che urlano, eppure c’è una confusione anche acustica.

In realtà quando siamo dentro si crea una situazione di bolgia nella quale tutti sono pigiati, perché quelle che sembravano nicchie in realtà erano porticine, e da lì cominciano a entrare altre persone, incasinando la direzione del flusso. Improvvisamente l’obiettivo di tutti è di arrivare all’altare e dare i piatti con i doni. Rovesciamento, benedizione. Dall’ingresso principale la gente continua a premere per entrare, e una specie di buttafuori decide ad un certo punto di bloccare tutti per lasciare passare solamente chi ha le offerte più cospicue.

Entra un gruppo di sei persone che portano sopra le teste una bandiera ricolma di fiori e monete. Nessuno esce. La gente si innervosisce. Non incrociamo sguardi che non siano ostili. Qualcuno si lamenta, e non capisci né le parole né il tono. Le lingue sono hindi e arabo, e forse qualcos’altro.

Questa empasse dura quindici minuti buoni: è pieno di pance che spingono, manca l’aria, nessuno si muove, qualcuno ringhia, la paura è quella di innescare una reazione a catena incrociando lo sguardo sbagliato.

Poi c’è la possibilità di uscire, infilandosi in una nicchia dietro a dei ragazzi che riescono a uscire.

Ricordo di aver avuto paura e che mi mancava l’aria, e ricordo di un unico incrocio di sguardi: supplichevole il mio, pietoso il suo, che mi ha aperto un microspazio tra lui e un’altro uomo, che mi ha permesso di uscire.

Silvia V - Viaggi, avventure, scoperte, montagnaSilvia

Usciamo. E letteralmente corriamo fuori dal cortile, poi lungo il budello, poi alla stazione dei treni. Dal cubo alla stazione non ci diciamo una parola.

Il giorno dopo, a Jaipur, la Lonely ci dice con grande avvertimento che i corridoi della città sono piccoli e molto affollati, e possono dare claustrofobia. Cosa che in realtà non è vera: e che in ogni caso non ci pare un grande pericolo rispetto al cubo di Ajmer.

Ajmer sì o Ajmer no?

Sei un pellegrino musulmano? Ajmer sì.

Non lo sei: Ajmer no.

Ajmer

Quanti caratteri ha l’India

C’è un’India ospitale e calorosa. C’è un’India che prova a spillarti piccole cifre ogni volta che è possibile. C’è un’India che ti dà tutto. C’è un’India pura e spirituale. C’è un’India che ti aspetta con birra e marijuana.

C’è un’India che spinge con le pance.

Forse ci sono tante Indie quanti sono i suoi abitanti.

E poi ci sono Indie inaspettate: caratteri che davvero non credi si addicano alle persone di questa terra… eppure.

Bagagli ad Ajmer: un breve racconto

Nel tempo, a distanza di anni e di viaggi, continua a venirmi in mente l’impiegata della cloakroom della stazione dei treni della maledetta Ajmer. Appena entri nell’atrio principale, sulla destra c’è un bancone di marmo rosso al quale evidentemente manca la porticina per tenere gli utenti fuori; l’impiegata, dentro la stanzina, ti fa cenni davvero minimi del viso per dire Entrate voi, non esco certo io; la comunicazione è minimale, lo sforzo verso l’inglese perfettamente nullo. Questo alla consegna dei nostri bagagli, che sono stati segnati con un gesso bianco direttamente sulla tela, mentre il numero del tagliando che ci è stato consegnato è stato scritto sul muro in corrispondenza della mensola sulla quale sono stati messi gli zaini.

Quando sono andato a ritirarli – Silvia era silenziosa dopo l’incidente di Ajmer, ad aspettarmi in una sala d’attesa sufficientemente frequentabile – l’impiegata mi ha scritto la cifra che avrei dovuto pagare direttamente su un pezzo di carta, cioè sul margine superiore, libero, della ricevuta. Le ho dato le rupie, lei non si è spostata di un millimetro per farmi passare tra la sua sedia e la fine delle mensole dietro di lei: cosa che era all’incirca fattibile quando siamo andati a lasciarli giù, i bagagli, perché in due te li puoi passare (anche se dovevi sollevarli sopra la testa), ma quando sono andato da solo a recuperarli mi sono dovuto arrangiare, incastrandomi tra l’impiegata e le mensole, sporcandomi di gesso, e poi figurarsi lo sforzo di ripercorrere al contrario i movimenti con entrambi gli zaini caricati in spalla e uscire dallo strettissimo passaggio del bancone di marmo rosso. Io ho ringraziato, ma niente You’re welcome o Thank you o un Namasté di rimando, e sono uscito a basso profilo, senza scaldarmi, ché era meglio tornare da Silvia e progettare la presa del treno successivo.

(Però mi sono fermato a comprare provviste per il viaggio: patatine, succhetti di mango, biscotti al cioccolato).

Silvia e Davide con Baba

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