Lo hai preparato da tempo e poi arriva Quel Giorno Lì. Quello in cui devi lasciare la tua scrivania.
Magari “devi” non è il termine giusto, dal momento che quella di lasciare il posto fisso è una tua scelta, fatta per intraprendere una nuova strada ma… ci siamo capiti.
Il giorno in cui ho lasciato il posto fisso: la mia esperienza
La mia esperienza vuole che la data esatta di fine contratto di lavoro coincida con il 31 dicembre. Ammetto che la data possa suonare altisonante e, in un anno di pandemia, anche un po’ catastrofica, ma non posso cambiare l’ordine della storia in favore del racconto. E quindi eccola, così com’è andata, nuda (la storia, e un po’ anche io – metaforicamente s’intende).
Arrivo a lavoro (stranamente) in anticipo. Darò la colpa al fatto di non aver trovato macchine per strada, che è anche vero. Ometterò di essermi svegliata per l’agitazione un’ora prima della sveglia, il che è altrettanto vero.
Accendo le luci al neon, apro le tapparelle dell’ufficio. Ce ne sono una marea e Anna, la mia collega, non è ancora arrivata.
Il resto della giornata è tutto un guardarsi in giro per assicurarmi di:
- non dimenticare nulla, anche se i pochi oggetti personali li ho già messi nello zaino (sì, lo so, gli scatoloni dei film americani fanno più scena, ma sono dannatamente scomodi da trasportare);
- non dimenticare i volti di chi per tutti questi anni mi è stato accanto condividendo gioie e dolori di un ufficio aperto al pubblico.
Per quanto mi riguarda infatti nella mia esperienza è mancato un aspetto fondamentale di tante testimonianze lette: la soddisfazione dell’addio. Per me non è stato così. Nel mio posto di lavoro stavo bene, se non fosse che la vita era ingabbiata entro ritmi che non potevo più sopportare.
Il giorno dopo aver lasciato il posto fisso: la disoccupazione
Il giorno dopo è l’1 gennaio (ma va’?) e, come si dice in questi casi, “anno nuovo, vita nuova”. Per me vale ancora di più.
Mi sveglio presto, decisamente troppo presto. A piedi nudi attraverso il corridoio ed entro in salotto. Fuori è ancora buio e sono rimasti gli avanzi della cena sul tavolo. No, decisamente non rientro in quel tipo di persone che ma dai, la sera basta un colpo di mano hai sistemato tutto.
Accendo il telefono. Le 5.15 (minuto più, minuto meno) e ho una giornata davanti tutta da inventare.
Certo, è il primo gennaio, quindi tecnicamente sarei in ferie. Ma poi… ferie da cosa? Ufficialmente non ho più un posto fisso, ma si può dire che non abbia neanche un lavoro, dato che devo ancora aprire la temutissima Partita Iva.
Nell’ultimo anno ho lavorato sodo per crearmi una professione e trovare i primi clienti che mi dessero fiducia, ma cavoli se mi sembra ancora profondo questo salto nel vuoto. Non è stato facile, ho lavorato anche 15 ore al giorno per capire se il copywriter potesse essere il lavoro per me ed ora… sono ufficialmente disoccupata.
Il termine mi rimbomba in testa. Davide (giustamente) se la dorme nell’altra stanza. Ed io? Io accendo il pc, metto su una tazza di te (odio il caffè, tienilo a mente se mai ci incontreremo) e… inizio a lavorare.
É il giorno delle ansie, dei “chissà se ce la farò” e dei “speriamo che funzioni”. Ma soprattutto è il giorno di inizio di una nuova avventura.
Sei mesi dopo aver lasciato il posto fisso: foto risposta
A distanza di sei mesi? Sono grata ad ogni frammento di pensiero per avermi portata in questa direzione.
Ah… ti stai domandando se tornerei indietro? Foto-risposta!
Un anno dopo: fuori traccia
Questo racconto sta diventando uno stillicidio, ma nell’intento dell’autrice (alias io, ma volevo troppo usare questa espressione) c’era la volontà di tenere una sorta di diario che tenesse conto del mutamento degli umori. Quelle delicate sfumature all’interno della scala che va da che cazzo ho fatto a sono proprio fiera di me in una montagna russa emotiva.
Un anno dopo è il momento di tirare qualche somma (anche perché, come ricorderai, coincide anche con il 31 dicembre). Chiudo il mio bilancio emotivo con un deciso segno positivo. Con il lavoro ho ingranato molto bene, questa vita nomade tra le montagne mi sta dando grandi soddisfazioni e non ho mai avuto natura e Davide così vicini.
Nel nostro caso, la parte veramente difficile sta nel fatto che stiamo percorrendo una strada che non esiste. Nessuno prima di noi l’ha percorsa: né i nostri genitori, né i nostri amici. Il nomadismo digitale è un fenomeno tutto sommato recente, ma è soprattutto ciò che abbiamo costruito a essere completamente fuori traccia. È una vita da inventare. Spesso sbagliamo, a volte abbiamo fortuna, ma diavolo se è arricchente.
Ah, la p.iva fa schifo. Questo devi saperlo.
Un anno e mezzo dopo: per te
Ho sempre timore di parlare di queste cose. Da una parte è come mettere in piazza un lato molto personale, dall’altra non vorrei dare messaggi sbagliati. Quello che posso fare è raccontare la mia storia, così com’è accaduta. Perché quello che avrei tanto voluto quando ero indecisa sul da farsi era proprio trovare qualcuno che mi raccontasse la verità.
I sorrisi tirati a tutti i costi mi stancano, così come ho rispetto della mia intelligenza per credere a certe favole della buona notte.
La vita è difficile. La scelta giusta non esiste e io non ho la risposta ai tuoi dubbi.
Una cosa che dico spesso a chi mi chiede (soprattutto su Instagram) dove ho preso il coraggio per lanciarmi è: cosa può andare storto?
Per me, trovare la risposta a questa domanda è stato il vero momento della svolta. Avrei perso il posto fisso, avrei mangiato i miei risparmi, sarei caduta in uno stato di frustrazione, avrei discusso con Davide, avrei passato notti insonni per farcela e poi notti insonni per trovare una via d’uscita. E poi? Sarei tornata alla vita di prima: un impiego, la possibilità di carriera, gli orari fissi, l’immobilità. Uno a uno palla al centro.
Avrei provato a strattonare questa vita verso una direzione che non esiste. Sarei stata strattonata fino a dover tornare sui binari.
Non è andata così. La mia carriera lavorativa si è impennata in pochi mesi con una forza del tutto inaspettata (anche per me), e in tutta onestà non credo che la vita mi abbia mai sorriso così tanto. Non lo so se è vero che fortuna audaces iuvat, ma ora sono certa che la vita è lì che aspetta chi ha coraggio di andarsela a prendere.
Questa è la mia storia. Le mie condizioni di partenza. Le mie paure. Il mio un anno e mezzo dopo quel giorno lì.
Posto fisso in Italia vs in Europa: una riflessione
Parlavo con Veronica, una ragazza expat, che mi raccontava di quanto fosse diverso il concetto di “posto fisso” in Italia rispetto ad altri Paesi. In UK ad esempio il mercato del lavoro è molto più dinamico, tutti sono sostituibili in fretta.
In America la mentalità è addirittura all’opposto della nostra: se stai troppo tempo in un’azienda significa che non hai abbastanza voglia di metterti in gioco, o che nessuno ha creduto in te tanto da darti un’altra chance. L’anzianità in un’azienda non è un merito.
Non sto dicendo che siano atteggiamenti giusti o sbagliati, ma solo diversi, frutto di altre mentalità. Sapere che esiste un altro modo di approcciare il concetto di “posto fisso” mi ha fatto pensare a quante siano effettivamente le strade possibili.
E infine mi chiedo e ti chiedo. Se sei qui probabilmente è perché ti trovi in una situazione simile a quella che ho vissuto quel-giorno-lì. Se vuoi raccontarmi di te, ti leggo. Nel frattempo ti mando una buona dose di ottimismo (che come avrai capito non mi è mai mancato).
Ciao Silvia, che bello leggere della tua storia nero su bianco, anche se ho seguito il tuo percorso anche attraverso le immagini di instagram. Che dire? Poteva andare tutto storto e come hai detto tu “se fosse successo, saresti tornata alla vita di prima. Uno a uno palla al centro” e non ho mai letto parole più vere. Perché dopotutto, nella vita, ognuno di noi ha avuto un momento in cui non ce l’ha fatta. Forse è più facile in UK, dove prendersi una pausa tra un lavoro e l’altro per ricalibrare i propri obiettivi è anche normale.
Però, è andata bene e la strada è solo in salita. Ti auguro sempre il meglio!
Ciao Veronica, forse è più facile in UK anche perché si hanno altri esempi attorno e non ci si sente sempre pesci fuor d’acqua. Nonostante questo si tratta comunque di una scelta personale e in quanto tale sappiamo quanto possa essere difficile scendere a patti soprattutto con i nostri mostri.
Grazie per essere passata di qui, un abbraccio.
PS: da amante del trekking anche io vedo la strada in salita sempre in maniera positiva, significa che c’è ancora tanto da esplorare.
Ciao Silvia
Purtroppo mi trovo nella tua stessa situazione.. o meglio ho un contratto a tempo indeterminato da 4 anni.. ma i miei ritmi di lavoro sono diventati insostenibili. Ma non è così facile lasciare.. deluderei tutti.. ed io invece con il tfr aprirei una mia piccola attività e non sarei più in una grande realtà dove ognuno vuole vincere sull’altro ed io l’anello più debole passo ogni giorno a piangere .. come si fa? Vorrei fosse tutto più semplice…
Ciao Danila, quanto ti capisco. Purtroppo mi rendo conto, sempre più spesso, di quanto non sia il lavoro di per sé il problema, ma i ritmi che i datori di lavoro e la società impongono. Quello che mi sento di consigliarti è di cercare comunque di riuscire a trovare la tua felicità, se c’è qualcosa che ci fa soffrire abbiamo il dovere di provare a cambiarlo. Magari con la società dove lavori puoi arrivare ad un compromesso per uno smart working, oppure arrivare ad ottenere quel benedetto TFR, cambiare le cose all’interno dell’azienda affinché i ritmi siano più gestibili, oppure ancora capire se e come puoi davvero mollare tutto e ripartire: la nostra felicità è un dovere, per quanto difficile possa essere raggiungerla. Del giudizio altrui non farti troppi problemi, fidati: deluderesti molto di più le persone care se sapessero quanta infelicità ti porti dentro.
Ti abbraccio forte e ti auguro di riuscire a trovare la forza per inseguire la tua strada.
Ciao Silvia, sono davanti ad un enigma colossale:Ho avuto dopo tanti sacrifici e pianti a 41anni l’indeterminato da pochi mesi.. Ne sono molto soddisfatto, ma so che non è il lavoro della mia vita.. Oddio, non lo detesto e lo stipendio male non è.. Ma nel frattempo ho avuto la possibilità di superare un colloquio (in un’altra azienda)per un ruolo che mi renderebbe sicuramente meno stressato ( considerando che lavoro su turni compreso notturno) e più soddisfatto..anche economicamente… Unica pecca è il contratto a tempo determinato di un anno che mi hanno offerto con possibilità di passare a indeterminato.. HELPPP… CHE FACCIO???
Ciao Alfredo,
difficile, difficilissimo rispondere per te perché non posso sapere ogni condizione in gioco, ma soprattutto perché spesso le scelte poi si prendono con buona parte di cuore, oltre che di cervello. Dal punto di vista razionale ti direi di valutare la serietà della seconda offerta cercando di capire quanto l’azienda sia affidabile (c’è tanto tourover di personale? è una società che esiste da tempo? che nomea ha?) le aziende si informano su di noi prima di assumerci e lo stesso dovremmo fare noi.
Meno stress e più soddisfazione mi sembrano un ottimo obiettivo di vita per le quali vale la pena di lottare se ci sono le condizioni.
Ti auguro un vagone di felicità, faccio il tifo per te!
Silvia
ciao Silvia, ho visto questa tua pagina ed ho pensato di confidarti la mia esperienza, magari cogliendo qualche spunto di riflessione.
Sono siciliano, ho 49 anni e da pochissimo (4 giorni) sono stato assunto da una amministrazione comunale, grazie ad un concorso, a tempo indeterminato provenendo da una libera professione da 22 anni (sono un geometra). Ero allettato dallo stipendio fisso e dal fatto di non dovermi sbattere più per il lavoro ma come professionista non ero (e non sono ) niente male. Ho, come dire, tutti i feedback positivi!
Eppure, trasferendomi qui al nord Italia lasciando in Sicilia la mia famiglia con moglie e bimbi, tra la solitudine ed il tastare la diversità di lavoro, ho sentenziato che è un tipo di lavoro che non fa per me. Dimenticare la mia esperienza, e diventare un “burocrate” in un altro paese con altre mentalità, altre norme…proprio non riesco a farmelo entrare in testa. Sono in un loop emotivo che non mi fa dormire nè mangiare e il pensiero che comunque da dove vengo stavo bene anche economicamente mi fa pensare che è meglio mollare ora, prima che diventi complicato. Tu come la vedi sta storia?
Ciao Stefano,
purtroppo non tutto quello che viene considerato migliore “sulla carta” poi lo è realmente.
Io ho fatto il salto contrario: da dipendente a libera professione e, nonostante lo sbatti, non tornerei mai indietro.
Credo che nel tuo caso la lontananza dagli affetti sia una questione di non poca importanza.
In qualsiasi caso, per qualsiasi cambio vita, c’è SEMPRE la possibilità di fare retro-front, l’importante è guardarsi bene dentro e capire dove sta la nostra felicità!
Buon cammino!
Buongiorno Silvia!
Ho letto la tua storia e mi ha molto colpita, probabilmente perché mi rivedo in molte delle tue parole.
Ho 32 anni e ad inizio 2023 ho partecipato ad un concorso per entrare nella pubblica amministrazione, una scelta dettata da esigenze prettamente economiche, poiché l’azienda in cui lavorava stava fallendo e avevo necessità di trovare un altro impiego. Tra varie opzioni valutate, mi sono imbattuta in questo concorso, ho studiato, ed è andata bene.
Purtroppo però le cose non stanno procedendo come speravo.. Il lavoro è frustrante e logorante, la posizione che ricopro non consente di esprimere né le mie capacità né le mie conoscenze, e la responsabile non consente alcuno spostamento/cambio di ruolo o ufficio.
Mi sento sempre angosciata, inquieta ed in trappola. Trascorro le giornate a pensare a quel “progetto” che ho in testa da mesi, ovvero abbandonare la PA e mettermi in proprio, il che comporterebbe un salto nel vuoto che non trovo il coraggio di attuare.
Ammiro la determinazione e la forza di volontà che hai avuto nel buttarti, credendo nel tuo progetto e nelle tue capacità. Spero anch’io un giorno di trovare il coraggio necessario di cambiare le cose e invertire la rotta.
Ti auguro il meglio!
Ciao Ilaria,
grazie per avermi raccontato la tua storia. Mi ci rivedo molto anche io.
Pensa che Davide, il mio compagno, dopo essersi licenziato da un lavoro che lo opprimeva si è trovato a scegliere proprio tra iniziare un impiego nella PA e aprire la p.IVA. I dubbi sono stati tanti, anche perché le condizioni economiche erano buone e l’impiego era praticamente dietro a casa, ma – pur consapevole di aver perso un treno – ha deciso di inseguire quello che l’avrebbe reso felice.
Come poteva saperlo? Semplicemente non lo sapeva, ci ha creduto.
Nel mio caso la domanda che mi ha fatto fare il salto è stata “se non funziona, se non riesco a lavorare con la scrittura, se non trovo clienti… se tutto questo, cosa succede?” La risposta è stata più semplice di quello che mi stavo prospettando: se non avesse funzionato mi sarei rimboccata le maniche e avrei cercato un altro lavoro. Avevo 30 anni, una laurea, voglia di fare, davvero nessun’altra azienda avrebbe dovuto credere in me?
Questa è stata la risposta che mi ha fatto cambiare prospettiva.
Ti auguro di raggiungere i tuoi obiettivi di vita, un caro saluto
Ciao Silvia,
Sono una ragazza che nel mondo delle aziende si sta affacciando solo dal 2021, ma inizio già a rendermi conto che la routine nelle mura di un ufficio per quaranta ore a settimana mi fa sentire privata di una parte della mia vita che non mi darà più nessuno (compirò 30 anni la prossima settimana, e voglio che questo decennio in arrivo abbia un senso di pienezza e realizzazione, non voglio che il giorno in cui tirerò le somme potrò solo dire “ho passato dieci anni tornando a casa stanca, senza voglia di uscire, allenarmi, suonare, leggere, ma solo di buttarmi sul divano dopo cena, aspettando passivamente il giorno dopo”), contemporaneamente mi rendo conto che, forse per una forma mentis con cui si cresce in Italia, ho il timore della partita IVA. Questo preambolo mi serviva per chiederti: siccome in un breve paragrafo ammetti che la p.IVA fa schifo, potresti per sommi capi spiegarmi i pro e i contro che ti portano a pensarlo, e perché non dovrei comunque demordere dal provare a sfruttarla? Grazie, un saluto.
Francesca
Ciao Francesca, non sai quanto mi riveda nelle tue parole. Anche per me la scelta è arrivata proprio con i 30 anni e anche per me la necessità era quella di mordere la vita un po’ di più… e non di aspettare la pensione come mi dicevano molti colleghi.
Arrivo alla tua domanda: la P.Iva fa scifo perché ti devi arrangiare e sostanzialmente nessuno ti aiuta. Le entrate non sono fisse, anzi possono variare anche molto di mese in mese, e quando emetti una fattura devi per forza pensare al fatto che tu stai pagando (o meglio pagherai) una buona fetta di tasse, il che ti impone di alzare i prezzi per portare a casa uno stipendio adeguato e conseguentemente di doverti distinguere nel mercato (spesso anche tra tanti improvvisati).
Detto questo secondo me i PRO, superano di gran lunga i CONTRO e non tornerei mai indietro. Nel mio caso, una volta che ho trovato i primi clienti li altri sono seguiti a ruota tramite passa parola perché ero brava e puntuale, ci sono le tasse da pagare, ma puoi entrare nel regime forfettario agevolato e avere un’attività tua è estremamente gratificante, ben più delle paure iniziali.
Poter gestire il proprio tempo? Per me questa è la stata la vincita alla lotteria.
Non conosco la tua situazione, ma ti auguro con tutto il cuore di soffiare su quelle 30 candeline con un desiderio chiaro in testa perché spesso i sogni si avverano (se li insegui).
Un caro saluto,
Silvia
Da sempre penso che il tempo è la cosa più preziosa che abbiamo ma per poter vivere dignitosamente nella nostra società purtroppo bisogna sempre scendere a compromessi. Ho 40 anni e lavoro da 20; ho sempre sfruttato al massimo ogni periodo libero per viaggiare, fare volontariato ed ogni volta al ritorno alla routine mi dicevo che avrei voluto cambiare vita. Non ho figli e nemmeno mutui da pagare; da anni ho il desiderio di staccare per un periodo di viaggio/volontariato; ho appena concluso un corso propedeutico alla partenza con una ONG che mi ha prospettato la possibilità di un’esperienza di un anno all’estero. Nel mio caso però dovrei licenziarmi perché di aspettativa non se ne parla : ho dovuto cambiare lavoro da qualche mese e ora le uniche cose positive sono una paga decente ed il contratto a tempo indeterminato in una buona azienda… potrei accontentarmi e restare in questo limbo per altri 20 anni o cogliere l’occasione e lasciarlo per fare quest’esperienza. Tuttavia ho la paura che una volta tornato mi toccherebbe accettare il primo lavoro che trovo rimettendoci in termini di quei pochi diritti che ho ora. Cosa mi consigli ?
Ciao Jean, è difficile consigliarti senza conoscerti bene, ma capisco benissimo il tuo dissidio interiore.
Ti faccio una domanda schietta: hai provato a chiedere l’aspettativa?
Perché nel mio caso ero sicura, come lo sei tu, che non me l’avrebbero concessa e invece quando ho detto che me ne andavo erano disposti ad aspettarmi e così mi hanno raccontato anche altre persone.
Detto questo, se ti hanno già detto che non è possibile, ricito le tue parole “le uniche cose positive ora sono una paga decente e il contratto”… qualsiasi sia la tua decisione, ti auguro di ottenre qualcosa di più di questo.
Buona strada!